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3 maggio 2013 5 03 /05 /maggio /2013 23:13

 

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27 maggio 2012 7 27 /05 /maggio /2012 08:12

 

 

 

Lunedì  4  Giugno 2012 ore 20,30

 

 

presso il teatro Parrocchiale di Sesso

 

Presentazione del  Libro


“Odilia e la Casa dei due pioppi”

 

 

 

Sono stato interpellato in questi giorni dalla signora Dilva Attolini che mi ha informato di questo libro dove si racconta la storia di Giuliano Orlandini che ha vissuto nella "Casa dei due pioppi " a Sesso e che si trova in fondo a via Ferri che una volta era "Vialato". E da li ricordando le mie origini ho scoperto quale era la casa e che è quella dove hanno abitato la famiglia di mio nonno Virginio con mio padre e le sue due sorelle Lidia e Adriana. Infatti negli appunti del libro (che non ho ancora letto) che mi ha mandato l'autrice dopo aver scoperto la parentela di terzo grado , viene menzionata anche la mia famiglia.

Sono curioso di conoscere il libro .

Ciao a tutti Artemio.

 

 

 

 

 

 

 

 

L’autrice è Dilva Attolini, mentre Maria Alberta Ferrari ne ha curato la grafica e i disegni all’interno, ispirati all’antico mondo contadino.

Dilva Attolini, montanara di Castelnovo né Monti, è la madre di Daniele Orlandini, detto “BILLO”, giocatore di calcio che gli appassionati di questo sport conoscono molto bene.  Billo fa parte della Bagnolese, squadra che milita nel campionato di serie D, di Bagnolo in Piano.

E’ un Orlandini anche il protagonista della storia narrata nel libro, precisamente Giuliano Orlandini, cognato dell’autrice, che ha sposato uno dei suoi tanti fratelli.

( In questi giorni si è scoperto che il protagonista è pure cugino in terzo grado di Artemio, Ausilia ,Virginio Orlandini, attivi in parrocchia, che hanno abitato pure loro alla Casa dei due pioppi.)

Giuliano nasce in questo paese, Villa Sesso, nel 1931. Vive i primi due anni al casolare, che si trova ancora, ristrutturato, ma riconoscibilissimo, in fondo a via Ferri. Oggi al posto dei due pioppi due colonne di mattoni reggono il cancello.

A quel tempo, a seguito di litigi e incomprensioni, Odilia abbandona la Casa dei due pioppi e cambia il destino di Giuliano che va a vivere in città, portato via dal suo casolare, dalle adorate zie e dal nonno Zeffirino.

Nella prima parte del racconto, si narra della nostalgia di Giuliano per la casa del nonno, dove per  fortuna, Giuliano bambino, spesso può ritornare: nelle domeniche, nei giorni di festa, nelle lunghe assolate estati. Assieme a Giuliano anche l’autrice ricorda l’antico mondo contadino, di cui lei in montagna aveva fatto parte, e ne ha una garbata nostalgia. C’è dentro il suo amore per la terra, per le cose semplici, che si stanno allontanando sempre più dai pensieri delle nuove generazioni.

Nella seconda parte c’è sullo sfondo la città di Reggio. Il periodo storico è quello che va dal 1931 al 1945, ai tempi del fascismo.

Gli animatori della serata vi racconteranno questo mondo passato attraverso letture e attraverso i testi delle canzoni popolari che sono rimaste nel cuore degli uomini e che hanno accompagnato la vita delle passate generazioni, ma che sono ancora bellissime da cantare insieme, come “Quelle stradelle”, “Rosina bella”, “Quando saremo a Reggio Emilia”, “Sento il fischio del vapore”……………


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15 maggio 2012 2 15 /05 /maggio /2012 22:16
 
Che grande lezione  
 
 
Pensieri davanti al carcere
 Carcere_Luce_SbarreR375.jpg
 
La forza delle madri
 
Le contempli sotto la pensilina attonite e mute, coi loro fagotti di bucato profumato e qualche pacchetto di biscotti da recare oltre le sbarre. Senza trucchi o abiti ricercati, sotto il sole cocente d’agosto come sotto la nebbia padana d’inizio inverno. Quei figli che oggi stanno dietro le sbarre di un carcere sono usciti dal loro grembo: per il mondo sono delinquenti e briganti, per loro rimangono pur sempre figli da amare e custodire. Dietro le sbarre abitano i figli, davanti alle sbarre stazionano le loro madri, splendide donne capaci di rimettere in scena ogni primo mattino all’esterno delle carceri la riedizione di quella prima Madre sotto la croce. Stabat mater dolorosa: ieri, oggi e sempre. Le chiamano povere donne, di loro qualcuno s’intenerisce, qualche altro forse le prende sottilmente in giro: eppure non cambia nulla dentro quel cuore capace solo di amare a oltranza. Perchè una cosa è il delitto, altra cosa è l’uomo che lo compie. Il primo va condannato, il secondo va amato senza giustificarlo.

Anche in carcere si celebra la festa della mamma, di quelle splendide eroine che campeggiano statuarie fuori dalle sbarre per stringere una mano, carezzare la barba, baciare quel figlio del quale si prova evidente nostalgia. Le loro occhiaie stanche parlano di fatiche e lunghi viaggi, le loro rughe raccontano di notti insonni e pensieri vagabondi, nelle loro scarpe ci sono andate e ritorni senza più certezze. Sono donne speciali, le mamme dei carcerati, perché donne capaci di rimetterli al mondo due volte: la prima volta quando li fecero entrare in questo spendido palcoscenico dell’esistenza, la seconda volta quando, il giorno dopo un misfatto, si sono rimboccate le maniche e han trovato il coraggio di scendere pure loro negli inferi delle galere; per amare quei figli quando forse meno se lo meritavano. Loro hanno capito che è proprio quello il momento in cui hanno più bisogno.

La geografia del Vangelo ambienta la vita di Maria tra Nazaret e Gerusalemme, tra la ferialità nascosta dei primi anni e la nostalgia di Risurrezione degli ultimi tre anni. Da quel giorno in ogni mamma abita l’inimitabile capacità di unire la quotidianità con l’eternità, il profumo della farina con le lacrime di nostalgia, la ricetta del minestrone con l’alfabeto della misericordia, lo sgranare la corona del rosario con il rimboccarsi le maniche in fronte a una cella. Gli uomini hanno paura delle donne: basta un loro sguardo per piegare delinquenti di vecchia data. Non è una questione di forza fisica, ma di forza del cuore perché la donna, a maggior ragione se madre, spinge il mondo un passo oltre le capacità dell’uomo. E gli uomini lo sanno perchè Dio nel loro grembo ha deposto la custodia della vita fino al suo ritorno. Ecco perchè le mamme tremano ma non disperano, hanno paura ma non si rassegnano, piangono ma non soccombono. E se qualche volta danno l’impressione di scomparire dalla vita di un figlio è solo per farsi trovare più forti un attimo dopo, come i torrenti carsici che s’inabissano e improvvisi ritornano più lontano.

Per vent’anni Emanuele, ergastolano costretto al regime del 41bis, ha fatto i colloqui con la madre da dietro un vetro: nemmeno l’emozione di stringerla quella donna. Dopo 8.000 giorni di galera gli hanno tolto il 41bis e ha fatto il primo colloquio attorno ad un tavolino. Sono tre giorni che Emanuele non si lava il volto: non vuole perdere il profumo lasciato dalla madre sul suo collo mentre lo baciava. Dentro il ventre della galera è il profumo della mamma a tenere accesa la vita.

 

Marco Pozza
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2 novembre 2010 2 02 /11 /novembre /2010 00:16
IL CASO/ La Piazza dove scuola e lavoro insegnano un percorso

lunedì 1 novembre 2010

 

L’utilità di questa esperienza è sintetizzabile in una poesia scritta da una delle nostre ragazze con cui desidero chiudere questo articolo.

 

Solitudine

Solitudine compagna lieve

Di tutta la gente

Che affolla la mente

Ma svuota l’anima.

Non sei la vincitrice tu

Non sei più la regina:

Qualcuno può sconfiggerti

Con l’abbraccio del bene

Può trafiggerti.

Non è più male la mia vita

Non è più tristezza il mio futuro!

Solo il sapore del ricordo

Mi resta ancora amaro

Ma è già un passato dimenticato

Un tempo rinnovato

 

 

 

Mettere le mani in pasta 

 



 

La Piazza dei Mestieri nasce a Torino nel 2004 ristrutturando una vecchia conceria trasformata in un luogo pensato per i giovani adolescenti (14-18 anni), perché possano incontrare dei Maestri che li introducano allo studio, al lavoro, allo sport, all’arte, all’uso del tempo libero.

 

Sono oltre 500 i ragazzi che ogni giorno varcano il grande cancello della Piazza dei Mestieri e che si distribuiscono lungo i 7.000 mq dell’edificio per frequentare i loro percorsi educativi che hanno una durata biennale o triennale e che li porteranno a diventare cuochi, barman, maitre, grafici, cioccolatieri, acconciatori, panettieri.

 

Spesso si tratta di ragazzi che hanno situazioni difficili alle spalle, dagli insuccessi scolastici ai problemi familiari. Oltre il 50% delle famiglie (ma molte altre si vergognano di dircelo) dei nostri studenti dichiara un reddito familiare che non supera gli 11.000 euro annui (sotto il livello di povertà). E non è solo una povertà economica. Tanti non conoscono la loro stessa città; quasi tutti hanno perso la speranza che la scuola sia un percorso possibile e adatto per loro.

 

È un fenomeno noto che emerge ormai da gran parte dei dati statistici e dalle analisi nazionali e internazionali sul nostro sistema educativo; i giovani tra 18 e 24 anni in possesso della sola licenza media inferiore e non iscritti ad alcun percorso educativo o formativo sono in Italia oltre 1.000.000, ma anche tra coloro che permangono nel sistema di istruzione le difficoltà non mancano: i tassi di assenza scolastica sono in crescita costante; resta elevato il gap, nei confronti degli altri Paesi industrializzati, in termini di competenze chiave; sono sempre più numerosi i quindicenni che dichiarano di non vedere alcuna utilità nel frequentare la scuola; tra coloro che si diplomano, il 30% lo fa con uno o più anni di ritardo; il primo inserimento lavorativo è situato in media al venticinquesimo anno di età e per oltre il 45% delle persone sino a 35 anni esso non ha alcuna attinenza col percorso scolastico svolto in precedenza.

 

Davanti a questa emergenza educativa, non abbiamo voluto limitarci ad aggiungere dati alle analisi, ma abbiamo deciso di mettere le mani in pasta. Dopo sei anni la nostra esperienza ci fa vedere che davanti a una proposta educativa i giovani si riaprono alla speranza, ricominciano a credere a loro stessi, al fatto che hanno un valore, e cosi in questi primi anni degli oltre 1.400 giovani che sono passati in Piazza il 95% ha finito il suo percorso formativo e quasi tutti (il 97% del settore acconciature, l’85% di quello gastronomico alberghiero e il 70% di quello grafico) ha trovato lavoro nel settore in cui aveva studiato e sono in crescita anche quelli che passano al quarto anno delle superiori per giungere al diploma.

 

 

La prima dimensione è legata alla bellezza. Noi siamo convinti che per ognuno, ma soprattutto per i giovani, la voglia di fare e di costruire nasce dall’attrattiva che genera su di loro la bellezza; per questo abbiamo cercato di creare un luogo accogliente, bello pieno di colori. Ed è per lo stesso motivo che ai nostri ragazzi proponiamo ogni settimana eventi musicali e teatrali, o li portiamo a vedere cose belle, ma anche che li accompagniamo a vedere la bellezza che nasce dall’opera delle loro mani.

 

Da questa osservazione nasce la seconda dimensione che è legata alla valorizzazione della manualità; i nostri ragazzi sono accompagnati a vedere la realtà trasformarsi sotto i loro occhi, vedere come le loro mani, come quelle dei loro maestri artigiani, diventano intelligenti e generano. Questa dimensione che si è ormai persa nelle nostre scuole tecniche e professionali è uno dei grandi patrimoni della tradizione del nostro paese che dobbiamo recuperare.

 

Una terza dimensione è quella legata al lavoro; per anni si è contrapposta l’educazione (scuola) al lavoro, come se fossero due momenti distinti e successivi; sono stati anni in cui è prevalsa una concezione che demonizzava l’impresa e l’imprenditore, sembrava che la scuola fosse umanizzante e il lavoro mero sfruttamento. Ecco noi vogliamo superare questo dualismo sciocco e ideologico. In Piazza si lavora sul serio, ogni ragazzo può frequentare i laboratori sotto la guida di maestri esperti, ma anche lavorare al ristorante aperto al pubblico, o al pub che serve la birra prodotta da noi. E alcuni prodotti sono venduti sul mercato come la birra e il cioccolato o sono utilizzati dalle aziende per la loro regalistica, cosi come sul mercato sta la nostra tipografia. Questo collegamento con il lavoro è una delle grandi novità del modello della Piazza dei Mestieri.

 

Ma la vera sfida è che il risultato di questo lavoro sia eccellente, che quello che fanno sia sempre più buono, che chi assaggia i loro prodotti provi soddisfazione. Per fare questo abbiamo scelto dei maestri che eccellevano nel loro mestiere e che hanno accettato di correre insieme con noi l’avventura di questa sfida.

 

In questo senso la Piazza, oltre a essere un ambito formativo, è anche un’impresa che si misura con i suoi clienti. Certo è un’impresa sociale che ha caratteristiche particolari, ma ha i problemi della produzione, dei clienti che non pagano, cosi come ha la necessità di remunerare chi lavora attraverso il raggiungimento di risultati positivi. Questa dimensione è preziosa perché ci permette di trasmettere a questi ragazzi l’onore del lavoro e del fare impresa, aprendoli a un compimento personale e a una responsabilità che è anche la grande speranza per affrontare ogni crisi personale, sociale ed economica.

 

Un luogo aperto al mondo

Una delle peculiarità della Piazza è quella di un’apertura al mondo. Non è pensabile costruire dispositivi per l’inclusione sociale realizzando “spazi chiusi”, per loro natura spesso autoreferenziali, un po’ asfittici, in cui i giovani che già vivono situazioni di marginalità vengano confinati nuovamente in contesti posti a lato dello scorrere della “vita normale”. L’apertura verso il mondo, attraverso la partecipazione alla vita della comunità territoriale, rende più semplice apportare correttivi e inventare risposte nuove ai bisogni emergenti.

 

 

Il “fare con”, il farsi compagno di un pezzo di strada, è il metodo che connota tutte le relazioni della Piazza, da quelle del tutor con il ragazzo, a quelle dell’artigiano che si rende disponibile a insegnare un mestiere, al tavolo degli amici della piazza che riunisce ogni mese 35 professionisti e imprenditori che dialogano su come sostenere questa esperienza, fino al rapporto con l’autorità locale, che ha la responsabilità di favorire un reale processo di sussidiarietà, sorreggendo iniziative in grado di fornire risposte concrete a bisogni emergenti.

 

Con la stessa logica, approfondendo i rapporti con le scuole, si sono costruiti percorsi per i docenti, mettendo a disposizione approcci e metodologie testati e consolidati e si sono istituiti percorsi di sostegno allo studio durante i regolari percorsi scolastici per i ragazzi con difficoltà di apprendimento.

 

I rapporti con i servizi sociali, i centri di aggregazione giovanili, le parrocchie, gli enti che per primi percepiscono situazioni di disagio, gli organi di pubblica sicurezza si sono approfonditi nel tempo, fino a creare un vero e proprio salvagente per le situazioni di emergenza e per sviluppare progettualità per supportare situazioni critiche.

 

Nella logica del “fare con” si è inoltre dato molto spazio agli incontri con gli artigiani, le imprese (oltre 700 ormai) e le loro associazioni, per verificare e analizzare le carenze nelle competenze e il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro, per costruire percorsi di apprendimento che rispondano alle esigenze del tessuto imprenditoriale. Percorsi in cui si sono coinvolti gli imprenditori e le diverse professionalità presenti nell’impresa; un coinvolgimento che si estrinseca nella partecipazione diretta alle attività didattiche, come nel costante dialogo sui contenuti dei percorsi educativi, per giungere sino alla collaborazione sulla pluralità delle iniziative in cui si estrinseca la vita stessa della Piazza.

 

Infine decisivo è stato il coinvolgimento degli enti locali e delle fondazioni bancarie. La necessità di tale coinvolgimento non è meramente connessa agli aspetti finanziari (che pur sono rilevanti), ma anche alla condivisione vera e propria dell’idea e della sua capacità di rispondere a un bisogno emergente dei giovani del territorio. Se la mission viene condivisa e assunta come propria, tali soggetti possono aiutare l’azione sui ragazzi favorendo l’apertura a nuove reti di interlocutori la cui azione sia complementare e dunque integrabile a quella della Piazza.

 

L’utilità di questa esperienza è sintetizzabile in una poesia scritta da una delle nostre ragazze con cui desidero chiudere questo articolo.

 

Solitudine

Solitudine compagna lieve

Di tutta la gente

Che affolla la mente

Ma svuota l’anima.

Non sei la vincitrice tu

Non sei più la regina:

Qualcuno può sconfiggerti

Con l’abbraccio del bene

Può trafiggerti.

Non è più male la mia vita

Non è più tristezza il mio futuro!

Solo il sapore del ricordo

Mi resta ancora amaro

Ma è già un passato dimenticato

Un tempo rinnovato



Le dimensioni della proposta

 

 

Tale dialogo, consolidato efficacemente già nella fase progettuale, ha portato durante questi anni alla valorizzazione di rapporti con realtà, persone, istituzioni, aziende con cui si è consolidata un’abitudine al lavoro comune. Si è sviluppata una “rete” di rapporti, di persone, di enti che desiderano mettersi insieme per affermare un metodo di lavoro che potremmo sintetizzare con uno slogan: “fare con”. Un mettersi insieme, senza schemi, per il raggiungimento del bene comune, in questo caso per il bene del singolo ragazzo.

 

 

 

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13 ottobre 2010 3 13 /10 /ottobre /2010 00:49

Mi chiedo spesso in questi giorni perchè una vicenda triste e aberrante come quella dell'uccisione di Sarah Scazzi sia oggetto di una enfasi enorme fino alla nausea da parte dei media. Anche le storie più tristi e becere vengono spettacolarizzate all'infinito . A me sinceramente questo modo di fare "INFORMAZIONE " comincia a dare molto fastidio .

Ho trovato questo articolo di Rodolfo Casadei che ne da una chiave di lettura che io condivido .

Come sempre vi propongo la lettura e lascio a voi  ogni commento.

ciao e a presto dal vostro punzecchiatore.

 

 Perchè il delirio mediatico intorno alla povera Sarah e al suo assassino?

 

 

di Rodolfo Casadei
Tratto da Tempi dell'11 ottobre 2010

 

Di nipoti uccise dallo zio per abietti motivi la cronaca italiana dal Dopoguerra ad oggi ne ha conosciute, purtroppo, altre.

Perché allora l'enfasi enorme dei media sul crimine di cui è rimasta vittima Sarah Scazzi e di cui è autore Michele Misseri? Per venire incontro all'ondata emotiva che sale dall'opinione pubblica. Ma è un'ondata che i media stessi, soprattutto la televisione, hanno in questi mesi alimentato. E non solo in questi mesi.

Dalle trasmissioni d'inchiesta sul privato come Chi l'ha visto ai varietà del genere di Carramba, ai reality come Il grande fratello, l'Isola dei famosi, ecc., da vent'anni a questa parte la televisione ha deciso, per aumentare l'audience e quindi realizzare profitti pubblicitari e costruire carriere, di diventare il grande sostituto emotivo della vita che gli spettatori non vivono. La rappresentazione ossessiva e guardona del mondo degli affetti -da quelli più banali dei bisticci puerili della casa del Grande Fratello a quelli tragici delle passioni capaci di omicidio- risponde alla domanda di emozioni di una società anafettiva, tiepida e mediocre in tutti i suoi sentimenti, qualunque sia il loro segno. Perché alla solidità dei rapporti umani del passato -quelli belli come quelli brutti, quelli liberanti come quelli schiavizzanti- sono subentrati i rapporti liquidi dell'era dell'individualismo e della “me society”.

Il sovradimensionamento della comunicazione virtuale e rappresentativa nel nostro tempo è contemporaneamente causa ed effetto dell'impoverimento antropologico: non ci sarebbe questa invasività della tivù se il mondo delle relazioni fosse vitale; allo stesso tempo la televisione alimenta la patologia, diffondendo l'idea che il senso di ogni dramma non è pienamente realizzato se non è totalmente esibito di fronte all'intera società catodica. Ma l'esibizione sul palcoscenico televisivo, cosciente o estorta come nel caso della madre di Sarah Scazzi, altro non è che il modo più crudele con cui una persona può essere espropriata dell'esperienza della propria vita, trasformata in spettacolo per il pubblico avido di droga emotiva.

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13 luglio 2010 2 13 /07 /luglio /2010 22:56

VIOLENZA01G.jpg 

Allarmante , ma cosa stà

 

succedendo?

 

 

 

 

Non so cosa stà succedendo in questi ultimi giorni , forse il troppo caldo , forse l'estate , ma così tanti delitti in questo ultimo periodo da parte di uomini lasciati mi hanno veramente  lasc iato sbigottito. Io non sono un esperto ,ma credo che anche gli esperti ci capiscano poco ma sicuramente più di me. Io sono una persona semplice che si alza al mattino come tanti altri uomini ,mariti , padri di famiglia e che cerca di affrontare la vita tra tante difficoltà ma anche tra tante gioie, anzi sono molte di più le gioie , è che spesso non gli diamo il giusto peso. E queste gioie sicuramente te le danno i figli , ma molto di più la persona che hai di fianco . E non importa se è facile la battuta " se tornassi indietro non mi sposo"  oppure "chi me l'ha fatto fare"  . Queste sono solo battute che lasciano il tempo che trovano , perchè poi se non abbiamo la nostra metà di fianco per un giorno intero ci sentiamo già soli. Avrei tante cose da dire , tante riflessioni da fare , ma è meglio che leggiate questi due o tre articoli che vi propongo , poi magari ci torniamo sopra.

ciao dal vostro  punzecchiatore. 

 

 

La catena di uccisioni da parte di uomini lasciati

 

Disprezzo e disamore in quei delitti
.
E la donna da secoli ci perdona
Non si tratta qui degli omicidi estivi, peraltro d’"agosto", secondo la statistica e la letteratura della cronaca nera. Né ci occupiamo di casi di maniaci, che non hanno stagione, anche se certo il caldo non giova alle menti esaltabili. Ma di una impressionante sequela di delitti negli ultimi giorni, che presentano caratteristiche comuni: un uomo uccide una donna, non in una lite esplosa improvvisamente in casa o al bar, ma in un luogo preciso dove con lei si è recato. La uccide quindi con una certa premeditazione, o comunque con un piano preciso. La causa di tale delitto è il fatto di essere stato lasciato, o messo in discussione. La donna lo ha abbandonato o, probabilmente preoccupata dal suo carattere, ha proposto una "pausa di riflessione" Con questa perifrasi si definisce il disperato tentativo di fuga da una situazione coatta da parte di chi non ha la libertà di andarsene tranquillamente. Chi vive un rapporto onesto, anche se in crisi, non ha bisogno di proporre pause di riflessione. Sta già riflettendo, come il suo partner. Parla e discute. Soffre e fa soffrire, ma va avanti anche così; l’amore contempla anche la possibilità di queste situazioni di crisi. Pare che la cautela della "pausa di riflessione" non serva comunque, venga punita, come l’abbandono esplicito, con la morte. Si tratta di pochi episodi, ovviamente, ma inquietanti per le affinità che li legano. Sarei sciocco se pretendessi di poter offrire una spiegazione certa e definitiva, ma ho in tal materia sensazioni forti: la donna, che lavora come l’uomo, che come lui paga il mutuo e si sposta in automobile, di cui paga le rate e l’assicurazione, gli è, in Italia, pari, da tempo. Non da molto tempo, ma nemmeno da ieri. Poiché lavora e paga le rate anche lei, ha le sue amiche, i colleghi, i problemi di lavoro. Ciò è inevitabile. Per molti maschi italiani (dico italiani solo perché mi riferisco alla nostra realtà), questo è molto, è al limite. Bisogna digerirne l’autonomia, digerirla abbozzando. Ma la collera cresce, rancorosa. Se la donna decide anche di tagliare, di recidere, allora ha superato il limite. La si ammazza. La donna è sottomessa da sempre, nella storia nota come tale, in quasi tutte culture conosciute: il matriarcato esiste ma risale al tempo del mito, ci sono eccezioni storiche di donne libere e dominanti come i certe parti dell’attuale Nigeria fino all’avvento del colonialismo, ma sono briciole. Dalla Cina dei fasti imperiali alla Grecia, modello di arte, filosofia e metafisica, dal Medio Evo europeo alla società elisabettiana, la donna è umiliata, da Oriente a Occidente. Con differenze fondamentali: in Occidente si affranca giorno su giorno, altrove in modo diverso, nel mondo islamico vedo la situazione un po’ dura. Ma nel fondo l’aspetto maschilista del maschio (quello che lo fa prepotente, impedendogli di essere uomo) alligna e a volte, per fortuna non sempre, emerge. Hanno tirato troppo la corda, adesso decidono anche se e quando lasciarci, allora pagano. Pagano qualcosa che molti maschi non avevano accettato ab origine. Se a questa triste realtà di una parte (non dominante) del mondo e dell’essere maschile si aggiunge che in questi tristi tempi è segno di potere e ricchezza, quindi di valore, esibire il possesso di molte donne, belle e vistose (cosa che un tempo si attribuiva agli sceicchi dei rotocalchi rosa), il cerchio si chiude. Se molte donne usano la loro avvenenza per proporsi in televisione come prede, la torta riceva la sua perfetta ciliegina. E le donne, le povere donne, continuano a esser vittime. Non solo di chi le uccide, ma anche di chi vede con insofferenza e peggio ancora con ironia la loro volontà di farsi rispettare. Di quel rispetto senza il quale l’amore è malconverso per definizione, è infatuazione, capriccio, volontà di possesso, non amore. Non credo siano delitti casuali, quelli di questi giorni. Credo siano prova di un disprezzo e disamore che la donna deve ancora subire. E sono millenni che ci perdona.
Roberto Mussapi


LE TRAGEDIE

Eleonora Noventa

La studentessa di soli 16 anni è stata uccisa domenica dal suo ex fidanzato, Fabio Riccato, 30 anni neolaureato in biologia che non accettava l’addio.



 
 

Eleonora Noventa
Aveva da poco vinto la causa di separazione con il marito, Omar Bianchera. «Io mia moglie la uccido», aveva detto e così poi ha fatto lo scorso il 25 aprile.


Cristina Rolle


Aveva cercato di affrontare con serenità il problema dell’affidamento delle figlie. Il marito Giampiero Prato ha preso un coltello e l’ha uccisa davanti al giudice lo scorso 11 maggio.




Daniela Gardoni

 


 
 

La ragazza aveva 23 anni ed era fidanzata con un carabiniere il quale aveva un’altra donna che attendeva un figlio da lui. Il 6 giugno lui le ha sparato un colpo in testa durante una lite.

Michelina Wojcicka Simona Melchionda


È stata uccisa il 17 giugno dal suo fidanzato,Vito Calefato, 33 anni che aveva
deciso di lasciare.


Alicia Brunilda


Domenicana, viveva a Vescovado Di Murlo (Siena), con il marito Juan Ramon Garcia Cappellan.

Il 27 giugno lo lascia. Lui la investe investe con l’auto.

Maria Montanaro e Sonia Balconi
L’unica cosa che lega le due donne è che sono state uccise il 30 giugno dalla stessa mano, quella di Gaetano De Carlo, ex fidanzato della prima che si era invaghito anche della seconda.

Sonia Balconi




Simona Melchionda

 


 
 

Il 1 luglio, è stata uccisa dall’uomo con cui conviveva, un bulgaro, perché si lamentava della condizione di estrama povertà in cui lui la faceva vivere.


Maria Montanaro


Debora Palazzo


Aveva solo 20 anni e aveva deciso di chiudere la storia con il suo ragazzo, Riccardo Regazzetti. Lui le ha sparato due colpi al cuore, lo scorso 3 luglio.




Angela Nijmic

 


 
 

Bancaria, collaboratrice de “Il Tempo” è stata uccisa dall’uomo che si era
invaghito di lei.


Roberta Vanin


A 43 anni aveva lasciato il suo fidanzato Andrea Donaglio, anche se continuava a lavorare con lui nel negozio di prodotti biologici a Spinea (Venezia). Lui l’ha uccisa il 6 luglio nel
negozio con 50 coltellate.


Chiara Brandonisio


L’8 luglio a Bari è stata assassinata da un uomo, che l’ha colpita a sprangate: i due si erano conosciuti attraverso Facebook e lui allacciare un rapporto.




Debora Palazzo Anna Maria Tarantino

 

In poche settimane 14 omicidi. Ieri un’albanese uccisa nel Cuneese, morto anche l’amico



DA MILANO
ANTONELLA MARIANI

C
lara, accoltellata ieri a Napoli dal marito che non accettava la separazione, forse si salverà. È in prognosi riservata, gravissima al­l’ospedale di Napoli, ma i medici spe­rano che il suo nome non si aggiun­ga all’elenco lunghissimo delle vitti­me della follia omicida maschile: die­ci nelle ultime due settimane, quat­tordici in due mesi. La giovane alba­nese aggredita ieri sera a Ceva, nel Cu­neese, invece no: Caterina Markovic, 24 anni, camminava con un ragazzo italiano, Salvatore Santia, di 28, quan­do la rabbia del suo assassino, un con­nazionale accecato dalla gelosia, le è piombata addosso, senza lasciarle scampo. Anche il giovane è morto po­che ore dopo nel reparto di rianima­zione dell’ospedale. Ancora Eleono­ra Noventa: aveva 16 anni ed è cadu­ta sabato vicino a casa, ad Asseggia­no, fuori Mestre, sotto i colpi di un uo­mo più grande di lei, un 30enne ap­pena laureato, che poi ha rivolto l’ar­ma su di sé. E prima, non lontano da lì, Roberta Vanin, 43 anni, anche lei accoltellata da un fidanzato che non si rassegnava alla fine della loro sto­ria e che poi ha cercato di uccidersi. E poi, ancora, in questa estate roven­te, Maria Montanaro e Sonia Balconi: non si conoscevano, abitavano a de­cine di chilometri di distanza, ma a­vevano avuto entrambe una relazio­ne con l’uomo che le ha raggiunte, l’u­na a Chieri, l’altra a Rivolta d’Adda e le ha massacrate prima di togliersi la vita.

Cosa sta accadendo al rapporto tra uomo e donna? Come trovare una ra­gione agli atti disumani di uomini che non accettano un «basta, è finita», che non vogliono rinunciare a una don­na vissuta come preda, oggetto, pos­sesso? «C’è una fragilità psicologica delle fasce giovanili che la società non riesce a contenere», azzarda il procu­ratore di Venezia che indaga sull’o­micidio- suicidio di Asseggiano, Car­lo Mastelloni. «Una fragilità che pre­suppone uno stato fortemente ne­vrotico, che può dare spazio a raptus di violenza estrema nei casi di accesi confronti interpersonali», continua il magistrato. Il «mi lasci, ti sparo» può nascere da un raptus, ma a volte in­vece è frutto di un’ossessione. Come nel caso di Clara Esposito, la colf 42en­ne ridotta in fin di vita dal marito Gio­vanni Esposito ieri a Napoli. Lei era tornata a vivere con i suoi genitori perché esasperata dalle continue mi­nacce del compagno, che già qualche giorno fa aveva cercato di strangolar­la. Orrore su orrore. E forse anche il pericolo dell’emulazione: lo ha evo­cato ieri il parroco di Spinea ( Venezia), davanti alla bara bianca di Roberta Vanin, uccisa il 6 luglio. Commosso, don Antonio Genovese, ha parlato del perdono offerto dai genitori all’omi­cida della figlia, Andrea Donaglio, o­ra piantonato nell’ospedale di Mira­no: «C’è una recrudescenza di fatti co­me quelli accaduti qualche giorno fa a Spinea e poi sabato fuori Mestre. Undici donne in poche settimane. Penso che chi è fragile perda il senso della vita e offra spazio all’emulazio­ne ». Un altro funerale, ieri, a Oleggio (Novara): quello di Simona Mel­chionda, 25 anni, uccisa dal suo ex, il carabiniere Luca Sainaghi il 6 giugno e ritrovata solo il 3 luglio. Un funera­le disperato, tragico. Sotto accusa ci sono soprattutto loro, gli uomini. «Sempre più uomini av­vertono l’enorme divario tra sé stessi e la capacità di gestire il rapporto con una donna che sfugge alla propria ca­pacità di conquista», spiega Vincen­zo Mastronardi, esperto di Psicopa­tologia forense e docente alla Sa­pienza di Roma. Come correre ai ri­pari, come impedire altri lutti, altra disperazione? C’è la legge sullo stalking da far rispettare – e proprio ie­ri un rodigino di 39 anni è stato arre­stato perché continuava a minaccia­re la sua ex. C’è la prevenzione. Una proposta concreta viene dalla Pro­vincia di Torino, che ieri ha annun­ciato un ampliamento dei servizi del­lo Sportello telefonico per l’ascolto del disagio maschile, attivo dal 2009. Chi si rivolge allo Sportello potrà ri­cevere ascolto e sostegno e parteci­pare a gruppi di condivisione con l’o­biettivo di prevenire la violenza. Una goccia nel mare. Ma forse, una vitti­ma in meno.


Sabato la tragedia di Eleonora, 16 anni. Il suo ex le ha sparato e poi si è ammazzato



 




La pistola utilizzata dal killer di Eleonara Noventa, la studentessa di 16 anni uccisa domenica a Mestre (Ansa)

 

 

l’analisi/1

Paola Bassani


«Uomini troppo immaturi E la frustrazione fa il resto»



U
n ma­schile molto fragile, che ha perso la capa­cità di contenere la sua aggressività; è severa la diagnosi della milanese Paola Bassani, psicologa e psicoterapeuta, grande esperta di relazioni di coppia.

Dottoressa Bassani, in che senso l’uo­mo
oggi è 'fragile'?


Nel senso che è preso dalle voglie, dagli istinti, come se non riuscisse mai a crescere. Lo vediamo nei rapporti di coppia, come nei casi di que­sti giorni, in cui la fragilità e­splode in episodi drammati­ci di totale mancato conteni­mento delle pulsioni aggres­sive.


Un maschio che non accetta il no...


È così. È come se la cosa più importante, oggi, fosse il ri­spondere
alle proprie esigenze egocen­triche. Anche l’altro deve conformarsi a questa esigenza; non c’è più la relazio­ne come cosa buona in sé, ma come buona in quanto fa stare bene me. E so­lo me.


Ma perché ci sono così tanti uomini che vivono in questa eterna adolescenza?


Perché la società li ha fatti spostare sul­l’avere le cose, sul diventare qualcosa (e non sé stessi), sul mettere in mostra la propria capacità piuttosto che il proprio essere.


Insomma, essere lasciati da una donna


diventa uno smacco sociale?


Sì, è una grande frustrazione, una ferita alla propria virilità. È come se il bambi­no piccolo si sentisse abbandonato dal­la madre. Questi uomini assassini sono rimasti bambini, hanno una sorta di at­taccamento anomalo, patologico, con la donna-oggetto. L’adulto, infatti, è in gra­do di gestire un no e di elaborarlo, può attraversare la frustrazione senza sen­tirsene ucciso, annientato.


Chi o cosa può insegnare a una persona ad attraversare la frustrazione di un 'no', un abbandono, senza sentirse­ne
distrutta?


Questo a che vedere con il modo in cui veniamo allena­ti, fin dall’infanzia, ad affron­tare i no, a partire da quelli necessari, pronunciati da ge­nitori sereni, che non si fan­no ricattare dai capricci dei figli bambini. È come se noi adulti mettessimo dentro ai nostri figli abbastanza stima di sé per af­frontare i no che inevitabilmente arri­veranno, senza che se ne sentano rasi al suolo. E poi c’è un altro problema...

Oggi la donna è spesso mercificata, ri­dotta a cosa. Un corpo-oggetto da esi­bire come conquista e 'preda'. Dal mo­mento in cui la donna diventa persona e si sottrae, è come se l’oggetto si ani­masse e dovesse essere nuovamente ri­dotto al silenzio, annullato, per rispon­dere ancora ai propri impulsi.


Antonella Mariani


l’analisi/2

Beppe Silvelli
«All’origine di tutto la violenza di una società che non educa»



O
mia o di nessuno. Questo suggeriscono alcuni dei comportamenti omicida di questi giorni.

Ma che razza di amore è?


No, non si può parlare di amore – nega con forza Beppe Sivelli, psicologo e pricoterapeuta, presidente della rete di consultori familiari di ispirazione cristiana Ucipem –. Quando un uomo pensa di poter ottenere la fedeltà di una donna con la forza e con la violenza, denota una mancanza totale di rispetto nei suoi confronti. Il rispetto è vivere l’altro, come una persona diversa da sé, con i suoi pensieri e le sue idee e il suo modo di amare. In letteratura troviamo molte storie di amore e morte: Giulietta e Romeo, Tristano e Isotta, Orfeo ed Euridice.

Soprattutto in quest’ultima vicenda c’è l’uomo che non sopporta l’assenza dell’altra e che lei viva una vita autonoma. Quando la vede sfuggire, quando capisce che non esercita più il suo potere su di lei, la uccide involontariamente. La uccide perché la considera una sua proprietà, un oggetto, una sua appendice, non ne sopporta la mancanza.


Come possono esserci nella nostra so­cietà tanti uomini con questo senso del possesso così malato?


Parliamo di tanti Narcisi che non soppor­tano
la ferita dell’abbandono, vivono il diniego d’amore come un oltraggio profondo, come se fossero stati privati di un proprio diritto. E l’orgoglio maschile li porta a uccidere il loro oggetto d’amore, inseguendo la propria immagine di onni­potenza. Quando una persona reagisce con queste modalità distruttive nei con­fronti dell’altro, parliamo ovviamente di situazioni patologiche, di aspetti psicopa­tici, perché l’amore è vita e questo invece è morte. L’amore crea, questo distrugge. L’amore è libertà, vuole il bene dell’altro, non cer­to la sua morte.

Diceva che sono situazioni pa­tologiche. E da dove nascono?


Be’, la nostra è una società in cui sembra che ognuno possa fare tutto ciò che vuole. Una so­cietà in cui non c’è più rispetto dell’altro e con la forza e il po­tere si pensa di poter ottenere ciò che si desidera. Una società in cui l’altro è vissuto spesso come una appendice di un altro, un pos­sesso, uno schiavo. Per imparare a sop­portare gli insuccessi, le delusioni, i falli­menti, ci vuole una personalità adulta e


Viviamo in una società violenta, dunque, che non educa a gestire gli insuccessi?


Il proliferare di queste esplosioni folli di aggressività lo prova. Ma la violenza è dentro ciascuno di noi. Dobbiamo riusci­re a ricreare una società un po’ più mite, meno basata su quella logica perversa che è 'mors tua, vita mea'.


(A.Ma.)









 





 
 
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3 maggio 2010 1 03 /05 /maggio /2010 23:15

PAOLA-CARPI.JPG

Ciao Paola .
I vostri figli non sono i vostri figli

di Gibran Kahlil Gibran

I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie della vita stessa.
Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi,
e non vi appartengono benché viviate insieme.
Potete amarli, ma non costringerli ai vostri pensieri,
poiché essi hanno i loro pensieri.
Potete custodire i loro corpi, ma non le anime loro,
poiché abitano case future, che neppure in sogno potrete visitare.
Cercherete d’imitarli, ma non potrete farli simili a voi,
poiché la vita procede e non s’attarda su ieri.
Voi siete gli archi da cui i figli, le vostre frecce vive, sono scoccate lontano.
L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero infinito, e con la forza vi tende,
affinché le sue frecce vadano rapide e lontane.
In gioia siate tesi nelle mani dell’Arciere,
poiché, come ama il volo della freccia, così l’immobilità dell’arco

 

 

 

E' giunta all'improvviso questa tragica notizia , come un fulmine a ciel sereno, e mi ha buttato tutto d'un tratto in uno sconforto immenso .Dopo il primo momento di incredulità e il naturale informarsi di come e quando fosse successo mi sono immerso in mille pensieri e domande . Ma perché proprio a lei ? magari se fosse stata al volante si salvava ? Come avranno appreso la notizia i suoi genitori , suo fratello , i nonni , la famiglia tutta? In che stato d'animo saranno ? Tutte domande che insieme a tante altre mi spaziavano per la mente in cerca di risposte . Allora mi è venuta in mente questa poesia di Gibran , che spesso noi usiamo perché ci piace , o meglio diciamo la verità , la usiamo forse inconsciamente per auto convincerci , ma poi in realtà il nostro comportamento è giusto il contrario . E forse non potrebbe che essere  così  perché "siamo umani".

I vostri figli non sono i vostri figli.

non vi appartengono

 

 E' difficile accettare tutto ciò . Li mettiamo al mondo , li cresciamo , li amiamo all'inverosimile , li giustifichiamo , ci fanno arrabbiare , riarrabbiare , e ancora arrabbiare , meriterebbero un calcio nel sedere eppure siamo ancora li giorno dopo giorno a volergli ancora più bene , perchè ? perchè sono i nostri figli e gli vogliamo un sacco di bene , li amiamo. Sembra quasi che a volte ci odino , ma in verità sotto sotto anche se non hanno il coraggio di dirlo , hanno immensamente bisogno di noi . Ci vuole tanta forza e determinazione per fare il genitore perchè le sfide sono tante e a volte prevale di più la delusione e lo sconforto che la gioia di educare un figlio . Sono tutte cose umane .

Quello che non trovo umano è il dolore per la morte di un figlio. Penso sia un dolore molto grande che solo chi lo prova può sapere . Per questo uno dei miei primi pensieri è andato alla Aida, a Luigi , a Stefano , a tutta la famiglia . Ogni parola è superflua , si corre il rischio di cadere nella banalità , anche se mi accorgo che anche una semplice testimonianza di affetto e cosa grande per chi soffre una grande perdita. Ma la preghiera per loro e naturalmente per la Paola mi sembra la cosa migliore da fare .

 

Si la Paola .

 

E' lei che purtroppo non c'è più. E' lei che all'età di soli 25 anni se ne andata , o meglio il Signore se le presa con Lui . Ma perché . Ci deve essere un perché . O sempre dobbiamo mettere tutto in qull'alveo di mistero che è la nostra esistenza? Forse ci vuol dire qualcosa ? Non lo so .

So solo che non sempre è stata capita da noi, e spero che il buon Dio ci perdoni per questo .

La ricordo con grande affetto , e se anche ultimamente ci vedevamo di rado , quelle poche volte era estremamente cordiale , felice , solare , e come lei  amava definirsi, "molto determinata".Raccontava con molto entusiasmo di quello che stava facendo , dei lavori che cambiava spesso perché non la soddisfacevano, dei suoi sogni . Forse ultimamente aveva trovato il lavoro che gli piaceva di più , forse era solo un passaggio per arrivare a qualcosaltro , sta di  fatto che non lo sapremo mai . Di una cosa sono sicuro , che dov'è adesso, troverà certamente pace e serenità e risposta piena ai grandi interrogativi della sua vita. 

 

Paola,  Dio , il Padre buono e misericordioso  che ti  vuol  bene ti accoglierà tra le sue braccia , ti coccolerà  e troverai gioia , quella gioia vera che solo Lui sa dare.

 

 

A voi Aida ,Luigi, Stefano e tutta la famiglia cosa dire . Non so cosa dire .Riesco solo ad offrire la mia umile preghiera al Signore perchè vi sostenga in questa difficile prova .

 

 

 

Ciao Paola .

 

 

 

 

 

 

 

 

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2 maggio 2010 7 02 /05 /maggio /2010 00:01

la storia di Vittorino

 

Venne abortito. Oggi è un ragazzino vispo

 
 

DA MILANO  VIVIANA DALOISOBambino nel pancione nei primi mesi

 Anche Vittorino, non doveva na­scere. Lo avevano condannato a morte una diagnosi errata – secondo cui sarebbe venuto al mondo con una malformazione cerebrale – e la scelta della sua mamma per l’abor­to ‘terapeutico’. Non doveva nascere, Vittorino, ma quel 27 febbraio del 1999 qualcuno si accorse che il piccolo re­spirava, e lottava per vivere.
  È quasi sera, l’ambulanza entra d’ur­genza al Policlinico San Matteo di Pa­via, meta la divisione di patologia neo­natale e terapia intensiva. Ai sanitari viene raccontato in fretta l’accaduto: quel ‘feto’, ‘abortito’, respira e si muove. Sono le parole della medicina, ma per i medici che le ascoltano, guar­dando le manine già ben disegnate del piccolo, suonano subito fuori luogo.
  Giorgio Rondini, all’epoca primario del reparto, ha ancora negli occhi il corpi­cino: «Era la prima volta in assoluto che ci capitava una cosa del genere – ri­corda il professore –. Il piccolo pesava appena 800 grammi, aveva forse 25 set­timane, più o meno 180 giorni di vita. E non aveva nessuno, era stato rifiuta­to dalla sua stessa mamma. Questo fat­to ci commosse subito, bastò un atti­mo perché ci sentissimo tutti genitori, e facessimo il nostro possibile per pro­teggerlo e salvargli la vita».
  L’équipe del San Matteo si concentra sul bimbo, 24 ore su 24: la culla termi­ca, la ventilazione artificiale, l’alimen­tazione tramite fleboclisi. I giorni pas­sano – cinque, dieci – e il piccolo con­tinua a respirare, lotta. Le infermiere portano carillon e pupazzetti, colora­no il muro dietro i macchinari, attac­cano ciondoli e campanelle. E gli dan­non no un nome, anche: scelgono ‘Vittori­no’, «forse non un gran che per un neo­nato d’oggi, ma lui aveva vinto la sua battaglia per la vita, e doveva vincere quella per la sopravvivenza – spiega Rondini –. Ci parve l’idea migliore».
  Intanto gli esami portano a una inco­raggiante, e insieme sconcertante, ve­rità: i medici cercano la malformazio­ne cerebrale di Vittorino, di cui a pri­ma vista non c’è traccia. La cercano e la trovano. Scoprono so­lo una piccola emorragia, un versamento che poteva simu­lare all’ecografia l’ipotesi di un idrocefalo (una malforma­zione che compromette lo svi­luppo del cervello), ma che può essere riassorbito con un piccolo intervento. Vittorino, rifiutato dalla madre perché creduto malato, è sano.
  I giorni continuano a passare, la storia del bimbo ‘adottato’ al San Matteo commuove tutti: il 16 marzo in ospe­dale arriva l’allora assessore ai Servizi sociali del Comune di Pavia, Sergio Contrini, con un’idea che piace subito a tutti: in accordo con il Tribunale dei minori di Milano, Contrini è pronto a diventare il tutore di Vittorino. «In que­sto modo – spiega lo stesso Contrini, oggi presidente dell’Azienda di servizi alla persona di Pavia – in tempi brevis­simi sarebbe stato possibile darlo in a­dozione ». Già, perché nel frattempo al­la storia di Vittorino si è interessata u­na coppia. Una coppia che gli assistenti sociali e lo stesso Tribunale trovano i­donea ad accogliere il piccolo, consi­derando la sua drammatica storia e le difficoltà che avrebbe dovuto affron­tare nei primi mesi di vita: «Li incon­trai di sfuggita – continua Contrini –, e­rano persone straordinarie».
  Vittorino cresce, si rafforza, arriva alle 30 settimane, le supera: al San Matteo non hanno più dubbi, il pericolo è scampato. «Ricordo ancora il giorno che arrivò l’ambulanza per portarlo via – ricorda Rondini –. Lo trasportarono in un ospedale di Milano, forse più vi­cino alla sua nuova famiglia. Oggi sap­piamo solo tramite gli assistenti so­ciali che sta bene, che ha compiuto da poco undici anni, che non sa e non sa­prà mai nulla della sua storia, o di noi». Di quei medici che hanno cre­duto nella sua vita, e lo chiamano an­cora Vittorino.

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29 aprile 2010 4 29 /04 /aprile /2010 23:08

CHI MUORE (Ode alla vita)
 

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni
giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non
rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su
bianco e i puntini sulle i piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno
sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti
all'errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul
lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un
sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai
consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi
non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente
chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i
giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non
fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.
Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida
felicità.
 

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3 aprile 2010 6 03 /04 /aprile /2010 17:18
Questa è la Pasqua .
PASQUA/ La testimonianza di un carcerato: ecco come ho scoperto il perdono

sabato 11 aprile 2009

 

  

 

Quando mi è stato proposto di mettere sulla carta i miei pensieri sul tema del perdono, la cosa più spontanea è stata di chiedere a chi avevo di fronte se il perdono era inteso verso l’uomo o verso Dio; ironizzando sul fatto che con l’uomo mi sentivo a posto, e che con Dio avrei fatto i conti al momento opportuno.

Però ora, mentre scrivo, la mia domanda si fa più forte, e mi chiedo che cos’è per me il perdono, quello vero. Di certo se avessi dovuto definirlo qualche anno fa, vista anche la mia condizione di detenuto, mi sarei limitato a dire che il mio sbaglio lo sto pagando eccome, e che per questo non c’era alcun bisogno di dare un senso al perdono. L’orgoglio che avevo allora avrebbe risposto da solo alla domanda.

Del resto è abituale mettere l’orgoglio a confronto con l’errore; non solo nel contesto di un carcere, ma in tanti altri luoghi dove prevale un’educazione sbagliata. E lo si fa perché l’orgoglio fa parte dell’istinto umano, che spesso ha la pretesa di essere nel giusto, oppure perché si spera sempre che il prossimo possa capire la nostra giustificazione. Ma soprattutto, perché porsi con una facciata d’orgoglio è la cosa più semplice da fare; perdonare, infatti, è difficile. Il vero perdono non è qualcosa che vendi o che compri, non è un’opzione che puoi usare a tuo piacimento per rimettere a posto le cose quando non vanno, come a dire, semplicemente: “ok, ti perdono”.

Il vero perdono è la scelta più difficile, è lo strumento di crescita che il Signore ci dà quotidianamente insegnandoci ad usarlo, perché non puoi pretendere di perdonare, e tantomeno di essere perdonato, se prima non impari a porti nella condizione di saper perdonare te stesso.

Nella mia vita sbagliata, di buono in abiti da cattivo, sono sempre stato perdonato dalle persone che mi vogliono bene e al pari ho sempre cercato di perdonare, ma mi rendo conto che non era così, che continuavo a far del male a me stesso e a coloro che mi perdonavano, perché io per primo non mi perdonavo. Quelli erano perdoni pieni di ipocrisia, che servivano solo a star bene, momentaneamente, con me stesso.

Il vero perdono parte dal proprio cuore e deve essere vissuto senza pretese, sia che lo riceviamo, sia che a perdonare siamo noi. Non esiste altro modo per viverlo e, se esiste, è falso. Perché il perdono è un Bene più grande che ci viene donato e come tale va vissuto nel suo vero termine.

Forse mille persone prima di me avranno sillabato la parola perdono: per-dono, un qualcosa da regalare e ricevere dal prossimo, un qualcosa che dai con il cuore senza aspettarti niente, se non il ripartire di nuovo, insieme, in un percorso comune. Un qualcosa che ricevi con gioia perché un dono “vero” dà gioia immensa. Secondo me questo è il vero perdono: un dono offertoci attraverso una grande fatica, un’opportunità per non fermarci di fronte all’orgoglio, un cammino di fede.

Penso che il perdono dovrebbe essere la scelta di ognuno, e non solo perché deriva da un grande insegnamento, ma anche perché è qualcosa che nasce nel profondo del cuore di ogni uomo e, come ha ben scritto un mio compagno, il cuore di ogni uomo batte per le stesse cose per cui battono tutti gli altri cuori.

Buona Pasqua,

 

Dario Fortini

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  • : IL PUNZECCHIATORE
  • : ....oggi come oggi si tende a non esprimere pubblicamente le proprie idee per non urtare la sensibilità dell'altro,questo alla lunga può far perdere la propria identità ad un intera generazione. A.O
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