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3 aprile 2010 6 03 /04 /aprile /2010 16:55
Io non so se succede anche a voi , ma io, quando leggo certe cose , certe esperienze di vita , mi accorgo che devo ancora imparare molte cose , anche da chi vive una vita meno fortunata della mia . In un certo senso mi viene da dire "per fortuna " ci sono queste persone che con la loro vita "mi punzecchiano" continuamente .
ciao a tutti dal vostro punzecchiatore.
PASQUA/ Lettera dei carcerati di Padova: un abbraccio ci libera dall’oscurità

 

 

Carissimi amici,

 

In questo periodo di Quaresima, la serenità e tutta questa grazia che il Signore ci sta donando ci fa sentire sempre di più che siamo Suoi, che dipendiamo da Lui, che senza il Suo continuo amore non potremmo vivere. Ci rendiamo conto ogni giorno, in ogni risveglio che tutta questa grazia deriva solo ed esclusivamente da Lui. Nelle preghiere che ci vengono spontaneamente da recitare in qualsiasi posto, emerge che la Sua presenza è costante, che non ci abbandona, ma ci stringe sempre di più a sé proprio come figli. Convivere con Gesù presente non è più un sacrificio, è una vera letizia; a volte ci sentiamo complici di Gesù, ci fa vedere cose che ci spaventano perché trasforma le persone come noi.

Guardando il passato ci rendiamo conto sempre di più che solo uno come Lui poteva renderci così mansueti e innocui. Iniziamo a capire veramente chi eravamo e chi siamo oggi. Se guardiamo il passato, ci facciamo paura pensando a tutto il male che abbiamo commesso. Oggi è bello vivere nella luce, senza che nessuno pronunci il nostro nome solo per dire il nostro male, ma quanto bello è sentire quel bisbiglio del cambiamento fatto grazie al Signore attraverso degli amici veri. Non avremmo mai scommesso nulla su di noi, era impossibile che noi potessimo essere così oggi.

Quando Margherita Coletta ci è venuta a trovare in carcere prima di Natale, ci ha detto: «Esiste una cosa che Gesù ci ha lasciato, un sacramento, che per me è importantissimo, ed è quello della confessione. In quel momento, nell'istante stesso che uno si avvicina a questo sacramento è libero, ma libero veramente, ci dovete credere. Qualsiasi peccato che ognuno di noi abbia potuto commettere da quell'istante non c'è più, è cancellato, non esiste più. Non bisogna nemmeno ripensarci, perché sarebbe del diavolo: in quell'istante tutto è cancellato. Dio è buono, è un padre misericordioso che accoglie tutti». È proprio vero. Oggi vediamo il nostro cuore pieno di Gesù e Lo preghiamo costantemente che non ci faccia ricadere nell’oscurità dove per un lungo periodo abbiamo vissuto. Non è semplice trovare le parole giuste perché la commozione è tanta, solo oggi capiamo e cerchiamo di dare un senso a quei gesti terribili. Quante volte abbiamo chiesto al Signore di prendersi la nostra vita e di ridarla a chi l’abbiamo tolta.

 

Ci rimarrà sempre impresso nelle nostre menti quello che aveva scritto in una lettera indirizzata al Papa il nostro amico Ilario, lui che poco prima di morire per un male atroce ha rubato il Paradiso come il buon ladrone, ricevendo l’estrema unzione: «Ricordatevi che, quando ci si rende conto del male fatto, non si vorrebbe più finire di scontare la pena e anche, quando la si è finita di scontare, il dolore che rimane nel cuore è grande». Ecco perché vivere in isolamento, stare in carcere ci ha fatto solo del bene e non siamo impazziti. A chi piacerebbe vivere in un luogo simile senza un attimo di privacy, anche se, sapendo di essere in colpa, in quel posto trovi un rifugio dove nessuno ti può toccare e vedere, dove le tue vergogne vengono occultate?

Oggi invece, che grazia ci ha fatto il Signore. Ha voluto che ci trovassimo al posto giusto nel momento giusto per farci capire ancora una volta che Lui ci ama tutti nello stesso modo. Essere stati lì accanto al nostro Pietro mentre ritirava il suo primo permesso è stato il regalo più bello della giornata, sì perché di regali così ce ne dà di continuo. Ci sono scese le lacrime ancora una volta, non per un dolore ma per una gioia fraterna che proviamo per un vero Fratello. Quanta grazia ci dà ogni giorno il nostro Gesù e quanto è presente. Sta a noi tenerlo in vita, senza ricordarlo come un “fu Gesù”, ma con un c’è Gesù in tutto e in tutti noi. Se si potesse fotografare le emozioni, anche questa sera, qui in mezzo alla nostra piccola comunità, ci vorrebbe Clint Eastwood con una pellicola gigantesca e ancora non basterebbe. Se questo si chiama miracolo o Mistero non lo sappiamo, ma sappiamo che è una vera letizia vivere così, in questo posto dove tutto si potrebbe dire ma non che sia un posto piacevole.

Duemila anni fa abbiamo fatto un errore nel giudicare Gesù colpevole solo perché voleva avvisarci di quanto sbagliavamo, e noi abbiamo sbagliato molto. Oggi sentire l’abbraccio di Cristo così forte e pieno di quell’amore che solo Lui sa dare, ci fa sentire quanto sia povero il nostro cuore di fronte a Lui. Con la Santa Pasqua della Resurrezione possano tutti sentire l’Amore e l’abbraccio di Gesù Cristo come lo sentiamo noi.

Desideriamo augurare una Santa Pasqua a tutti gli amici e alle loro Famiglie. Vostri amici in Cristo.

 

Un gruppetto di detenuti della Casa di Reclusione di Padova

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17 marzo 2010 3 17 /03 /marzo /2010 07:41
51 Compleanno

Ringrazio il Signore per il grando dono della vita e per tutti i doni che mi ha fatto e sono tanti.


"Il grande dono che ci è concesso, invecchiando, è quello di non perdere le altre età che abbiamo vissuto."

"Chiunque smetta di imparare è vecchio, che abbia 20 o 80 anni. Chiunque continua ad imparare resta giovane. La più grande cosa nella vita è mantenere la propria mente giovane."
 
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31 dicembre 2009 4 31 /12 /dicembre /2009 16:38

AUGURO A TUTTI VOI E ALLE VOSTRE FAMIGLIE UN 2010 CON TANTA GIOIA E TANTA SALUTE SPIRITUALE  E FISICA . CHE IL SIGNORE CI PROTEGGA E VEGLI SU DI NOI . AFFIDIAMOCI A LUI  E CONFIDIAMO IN LUI.

TANTI  TANTI  
TANTISSIMI AUGURI   A TUTTI



Vi lascio con la lettura del canto TE DEUM  in latino , ma segue anche la traduzione in italiano .
E' un Canto di ringraziamento e lode per le occasioni importanti e perciò per l'anno trascorso si vuole lodare e ringraziare Dio per tutti i benefici ottenuti . E' molto bello e molto bistrattato da tutti noi.
Vi è alla fine anche
un commento di Rino Camilleri . Da leggere.

 

TE DEUM

 

Te Deum laudámus: / te Dóminum confitémur.

Te ætérnum Patrem, / omnis terra venerátur.

Tibi omnes ángeli, /

tibi cæli et univérsæ potestátes:

tibi chérubim et séraphim /

incessábili voce proclamant:

Sanctus, / Sanctus, / Sanctus /

Dóminus Deus Sábaoth.

Pleni sunt cæli et terra / maiestátis glóriæ tuae.

Te gloriósus / Apostolórum chorus,

te prophetárum / laudábilis númerus,

te mártyrum candidátus / laudat exércitus.

Te per orbem terrárum /

sancta confitétur Ecclésia,

Patrem / imménsæ maiestátis;

venerándum tuum verum / et únicum Fílium;

Sanctum quoque / Paráclitum Spíritum.

Tu rex glóriæ, / Christe.

Tu Patris / sempitérnus es Filius.

Tu, ad liberándum susceptúrus hóminem, /

non horruísti Virginis úterum.

 

Tu, devícto mortis acúleo, /

aperuísti credéntibus regna cælórum.

Tu ad déxteram Dei sedes, / in glória Patris.

Iudex créderis / esse ventúrus.

Te ergo, quæsumus, tuis fámulis súbveni, /

quos pretióso sánguine redemísti. ætérna fac cum sanctis tuis / in glória numerári.

Salvum fac pópulum tuum, Dómine, /

et bénedic hereditáti tuæ.

Et rege eos, / et extólle illos usque in ætérnum.

Per síngulos dies / benedícimus te;

et laudámus nomen tuum in sæculum, /

et in sæculum sæculi.

Dignáre, Dómine, die isto /

sine peccáto nos custodíre.

Miserére nostri, Dómine, / miserére nostri.

Fiat misericórdia tua, Dómine, super nos, /

quemádmodum sperávimus in te.

In te, Dómine, sperávi: /

non confúndar in ætérnum.

 

TRADUZIONE DELL'INNO IN LINGUA ITALIANA

 

Noi ti lodiamo, Dio

ti proclamiamo Signore.

O eterno Padre, 

tutta la terra ti adora.

A te cantano gli angeli 

e tutte le potenze dei cieli:

Santo, Santo, Santo

il Signore Dio dell'universo.

I cieli e la terra 

sono pieni della tua gloria.

Ti acclama il coro degli apostoli 

e la candida schiera dei martiri;

le voci dei profeti si uniscono nella tua lode; 

la santa Chiesa proclama la tua gloria,

adora il tuo unico figlio,

e lo Spirito Santo Paraclito.

O Cristo, re della gloria, 

eterno Figlio del Padre,

tu nascesti dalla Vergine Madre 

per la salvezza dell'uomo.

 

Vincitore della morte,

hai aperto ai credenti il regno dei cieli.

Tu siedi alla destra di Dio, nella gloria del Padre. 

Verrai a giudicare il mondo alla fine dei tempi.

Soccorri i tuoi figli, Signore,

che hai redento col tuo sangue prezioso.

Accoglici nella tua gloria

nell'assemblea dei santi.

Salva il tuo popolo, Signore, 

guida e proteggi i tuoi figli.

Ogni giorno ti benediciamo, 

lodiamo il tuo nome per sempre.

Degnati oggi, Signore, 

di custodirci senza peccato.

Sia sempre con noi la tua misericordia: 

in te abbiamo sperato.

Pietà di noi, Signore,

pietà di noi.

Tu sei la nostra speranza, 

non saremo confusi in eterno.



 

C’è qualcosa di magnifico ma anche di terribile in questo antichissimo canto con cui la Chiesa loda l’Onnipotente e Gli rende grazie in occasione di eventi particolarmente importanti. E quando un anno si conclude. Tanto magnifico e terribile, questo inno, che non hanno osato rinunciarvi neppure i più feroci anticlericali. Napoleone, per esempio, non se ne perse uno, arrivando a minacciare di morte il clero se non gliel’avesse eseguito in pompa magna. Il Piemonte delle leggi eversive metteva in carcere i vescovi che si rifiutavano di intonarlo per protesta. Perfino Garibaldi, il più fanatico dei mangiapreti, pretese il solenne Te Deum, e più di una volta.

Bisogno di ingraziarsi le plebi superstiziose e legate alla religione? Voglia di legittimarsi come «liberatori» e «purificatori» della Chiesa? Sì, c’era anche questo, come nel caso del generale Championnet e la sua pistola puntata alla testa dell’arcivescovo di Napoli affinché il sangue di San Gennaro si sciogliesse pure davanti agli invasori francesi. Ma nessuno mi toglie dalla capoccia che c’era anche un fondo di ancestrale terrore del divino, una di quelle emozioni che niente come la musica è capace di far salire dal profondo dello stomaco.

 

E, tra i canti sacri della tradizione cristiana, se ce n’è uno in grado di far tremare il cuore è il possente Te Deum. Quelle note, sgorgate nella magnificenza del gregoriano, in qualche modo evocano il Giudizio, la sentenza finale di quel Maestro che, scaduto il tempo, ritira il compito e lo valuta: sufficiente o insufficiente. La vita è infatti un compito, anche se molti cercano di convincerci che sia solo un giocattolo (il quale, se ti va bene ci giochi, sennò lo butti via). E la valutazione finale, senza possibilità di appello, prevede una sola alternativa di voto: buono, non buono. Uniamoci anche noi, nel finale di quest’anno, al canto di ringraziamento che la Chiesa eleva da sempre al suo Creatore. Uniamoci anche se siamo stonati. Anche se quest’anno non è stato dei migliori, perché il Signore non permetta di peggio (al quale, com’è noto, non c’è mai fine). Finché non si realizzi la Beata Speranza e venga, finalmente, il Suo Regno.

 



 

  

 

  
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30 dicembre 2009 3 30 /12 /dicembre /2009 22:07
Questo articolo di Claudio Risè mi ha molto colpito perchè fa un'analisi interessante ,seondo me molto veritiera,reale. Peccato che il soggetto di cui si parla "la famiglia" sia sempe più attaccata da ogni parte , o quantomeno non sia sostenuta adeguatamente per l'enorme valore che invece ha a tutti i livelli. Il futuro della "famiglia" dipende da noi da come sapremo coltivarla , custodirla ,promuoverla tramite la nostra vita , la nostra testimonianza. E' un'impresa difficile , ma non impossibile.
ciao - il punzecchiatore.
Feste, e famiglia

di Claudio Risé
Il periodo di festa dal Natale all’Epifania è un caposaldo (con qualche crepa) della famiglia italiana.

È in famiglia che si svolge gran parte di questi incontri, trasmettendo un evidente calore affettivo a tutte le persone coinvolte. D’altra parte (conferma l’esperienza terapeutica), sono giorni amari per chi la famiglia non ce l’ha più, o ha con essa un rapporto conflittuale: soprattutto i separati, a cominciare dai padri, nella maggior parte dei casi allontanati dai loro figli.

Naturalmente non tutto fila liscio. Come sempre quando l’affettività è in gioco, non mancano (ad esempio) le liti, e neppure la noia, o l’insofferenza per l’invasività degli altri. Tanto meno è semplice, in un modello culturale dove ognuno bada sempre più ai propri interessi, prestare attenzione ai bisogni degli altri, soprattutto i più deboli: i piccoli, i vecchi, i malati. Tuttavia, più o meno bene e sempre con qualche fatica, si riesce a farlo, e questo «dono di sé agli altri», cambia il tono dell’umore.

Siamo tutti un po’ meno tesi, più aperti, anche più allegri. Non tanto per il minor lavoro: le feste hanno anche un lato massacrante, per le donne in modo particolare, ma anche per i padri (sia per il costo, che per il dover assumere attenzioni e responsabilità su cui altrimenti spesso sorvolano). Ciò che fa bene, anche psicologicamente nelle feste, che sono poi riti di dedizione e attenzione familiare, è proprio l’uscire dalla prigione ormai soffocante del proprio ego, e incontrare, scambiare, dare e ricevere dagli altri, dalle persone cui vogliamo bene, e che fanno parte della nostra vita.

Scambio, dono e affetto: si tratta di esperienze elementari, per certi versi ordinarie, poco illuminate dai riflettori mediatici, sempre puntati sulle passioni, sul sesso, sulle ricchezze, sul potere. Eppure la nostra vita, anche il nostro equilibrio psicologico, ed il nostro benessere fisico, dipendono soprattutto da queste esperienze, non dalle altre di cui sempre si parla.

Le passioni esaltano un momento, ma gli affetti legati a tutta la nostra storia, ci nutrono quotidianamente, in modo caldo, discreto, costante.

Come in tutte le istituzioni «naturali», ispirate dagli istinti primari (quello di maternità, paternità, sopravvivenza), questi momenti rituali non si limitano agli aspetti affettivi, ma toccano anche quelli più materiali e concreti. La crisi economica non ancora terminata ha, per esempio, dimostrato la fragilità, anche finanziaria, di uno degli ultimi eroi della pubblicistica dei nostri tempi: il leggendario single. Che ha sperimentato sulla propria pelle come al di fuori del supporto di una struttura famigliare, perdere il lavoro, o averne uno molto meno remunerativo possa diventare l’anticamera della povertà. Oltre che di una solitudine che si rivela ormai misera, una volta privata da quei consumi legati allo status e all’immagine che ne costituivano l’attrattiva.

I nonni noiosi e non elegantissimi, insomma, hanno però una pensione e, soprattutto, continuano a volerti bene anche se hai dovuto vendere la Bmw.

Avere mantenuto, e non completamente distrutto, la ricca rete delle famiglie, affettiva prima che economica, si è dimostrato uno degli elementi centrali della saggezza italiana, e ci ha saputo proteggere da difficoltà che hanno colpito spietatamente in paesi a noi vicini, come la Grecia o la Spagna.

Le feste di queste settimane, che non a caso cominciano raccogliendosi davanti a una nascita, sono la celebrazione proprio di questo nucleo forte della nostra cultura, tradizione, e psicologia: cerchiamo di non distruggerlo; anzi di ripararlos

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16 novembre 2009 1 16 /11 /novembre /2009 23:09
LETTERA/ I carcerati di Padova: si può esser felici in cella

martedì 10 novembre 2009

 

Siamo alcuni ergastolani della Casa di reclusione di Padova. Ci troviamo in carcere da 10-15-17 anni. Abbiamo appreso dalla tv l’agghiacciante notizia del suicidio di Diana Blefari Melazzi, un gesto che sta facendo molto discutere, a differenza del silenzio sulle centinaia di altri nostri compagni che in questi anni si sono suicidati e che sono passati inosservati, forse perché “anonimi” e di nessun interesse giornalistico, ma non per questo meno “importanti” sotto l’aspetto umano, che invece dovrebbe sempre essere tenuto in primaria considerazione.

 

Dal giorno del nostro arresto ne è passata molta di acqua sotto i ponti, siamo stati anche in carceri “dure” e, nonostante a volte la tentazione di farla finita sia stata quotidiana, non ci siamo mai arresi alla disperazione, neppure quando ci siamo ritrovati a regime duro e completamente da soli in una cella di isolamento. La nostra natura di Uomini, e cioè di persone che cercano inarrestabilmente un senso alla vita, prende sempre il sopravvento, e questo riguarda sempre tutti anche i non carcerati - basta avere il coraggio e la lealtà di guardarsi attorno. Stante le condizioni in cui siamo di per sé dovremmo essere in pochi a non suicidarsi e invece no.

 

Questo riguarda tutta la società, anche chi ha tutto. Non sono le condizioni di vita: pensate che per delinquenti e non, siano così determinanti? Basta guardarsi attorno vicino - a casa propria - o lontano che sia - nei paesi più poveri.

 

Non sono neppure il rispetto dei diritti umani minimi a dare dignità all’Uomo. Serve una vera Speranza nella vita, di cui i diritti umani, la dignità del vivere ne sono una conseguenza. Riconoscere la positività che vince ogni solitudine, ogni violenza, ogni sopruso è possibile solo grazie all’incontro con persone che testimoniano che la vita vale più di ogni apparente mancanza e delle peggior condizioni di vita, della malattia e della morte.

 

Non confondiamo perciò la Speranza vera, quella che risponde alla nostre e vostre domande di giustizia, di verità e di felicità con l’acqua calda, un pasto un tetto e un po’ di rispetto (che certo permettono di vivere meglio).

 

Noi possiamo reputarci dei “fortunati” perché non abbiamo mai perso la fiducia, o forse non abbiamo mai avuto il coraggio di mettere in pratica tutte le strane idee che vengono facilmente in testa quando si è in condizioni disperate.

 

Per quanto ci riguarda, la nostra fortuna è stata quella di aver trovato delle persone che in noi hanno visto il lato buono; persone che nonostante le pessime “referenze” hanno comunque scommesso su di noi, e anche se potrà sembrare strano, paradossalmente è stato proprio quel briciolo di fiducia a farci comprendere ancora meglio i nostri errori e il valore infinito che ognuno di noi, di voi ha.

 

Quando viene data una possibilità durante la detenzione non significa svilire il senso della condanna, ma anzi si aiuta la persona a prendere coscienza delle proprie responsabilità; è proprio in quel momento che si inizia davvero a pagare, a scontare veramente la condanna con la giustizia dei tribunali e soprattutto con gli altri, nei confronti della società e ancor di più verso le persone alle quali si è fatto del male.

 

Il sistema carcerario e legislativo purtroppo hanno alcuni controsensi. Si parla a volte di diritti umani e poi ci si indigna tanto se qualcuno propone l’abolizione dell’ergastolo, sostituendolo con una condanna ugualmente dura ma che abbia un fine pena, anche se molto lontano nel tempo, che lasci quindi un barlume di speranza e di redenzione a chi lo sconta.

 

Ora sembra, ascoltando i telegiornali, che il problema sia consistito solo in un controllo poco adeguato di Diana Blefari Melazzi, e che quindi bastava tenerla continuamente monitorata o per le sue condizioni “trattata in un altro modo”. O per citare un altro caso di attualità, che il povero Cucchi non fosse morto. Ecco questi casi non si possono trattare usandoli, come sempre tutto - vedi anche il caso Marazzo - a proprio uso e consumo, fagocitandoli per poi dopo un pò passare a un altro scoop.

 

Bisognerebbe invece porsi il problema che aldilà dell’individuo che ha commesso un reato, c’è sempre la persona, e nessuna persona è in grado di vivere se le si toglie qualsiasi progettualità o speranza per il futuro, e se la si identifica solamente e per sempre nel crimine che ha commesso.

 

Per quanto ci riguarda crediamo infatti che, fermo restando la responsabilità penale e quindi la giusta condanna che stiamo pagando, sarebbe importante sapere che non tutti gli occhi degli altri rimangono indifferenti allo sforzo che facciamo, giorno dopo giorno, nel voler crescere come uomini che molto hanno tolto, ma che ancora qualcosa di buono sentono di poter dare.

 

È vero che la funzione della carcerazione è quella di punire una persona che ha commesso dei reati e di isolarla dalla società. Difatti ci si trova spogliati di tutto, senza più amicizie, spesso senza più una famiglia che non ti può aspettare in eterno. Si è soli con le proprie colpe, con i rimorsi della propria coscienza, rinchiusi tra quattro mura. Ma a questo punto che valore hanno i tanto declamati “diritti umani”, se non c’è nessuno che ti tende una mano e che ti dice che non sei più solo e che se vuoi puoi tentare di riscattarti?

 

Allora l’invito che vogliamo rivolgere a tutti e in particolare a chi si trova nelle nostre condizioni in tutte le carceri del mondo, di non smettere mai, di lottare per ottenere condizioni migliori e dignità nel vivere, ma soprattutto che si possa trovare una risposta al senso del vivere e del morire subito e questo possa rendere la vita più bella.

La felicità non è avere l’acqua calda in cella.



 

  
1° MAGGIO/ Lettere dal carcere: quando il lavoro dietro le sbarre rende più liberi e più uomini
 

giovedì 30 aprile 2009

 

 

Il primo maggio è la festa del lavoro. Spesso però ci dimentichiamo di una categoria particolare di lavoratori: i carcerati. Ma che senso ha il lavoro in carcere? È indispensabile per la ripresa umana. Lo si legge chiaramente dalle testimonianze di alcuni detenuti della Casa di Reclusione di Padova che lavorano alle dipendenze della Cooperativa sociale Giotto e del Consorzio Rebus e che pubblichiamo. Il lavoro - e quindi il confronto con gli altri - oltre a restituire dignità a chi è recluso è fondamentale per una vera presa di coscienza dei propri errori e del dolore causato agli altri, requisiti indispensabili per chi vuole intraprendere un cammino improntato al rispetto delle regole di civile convivenza. Un aspetto forse troppo trascurato quando si parla e si celebra il lavoro.

 

Mi è stato chiesto cosa significhi lavorare in carcere. Prima di rispondere è fondamentale precisare a quale lavoro ci si vuole riferire, perché in carcere sono quasi sempre esistiti i lavori cosiddetti “domestici”, cioè tutte quelle mansioni d’istituto che vengono svolte quotidianamente: il portavitto, lo scopino, lo spesino, insomma tutte quelle attività che non permettono di avere un riscontro con il mondo esterno, ma che si limitano al buon andamento carcerario.

Da quando invece è stata data la possibilità ad alcune aziende di portare il loro lavoro tra le mura penitenziarie, l’aspetto lavorativo ha assunto il suo vero valore e con tutte le dinamiche che lo contraddistinguono, come ad esempio la produttività e il riscontro sul mercato.

È vero, pur di non stare in cella un detenuto apprezza anche il lavoro domestico, ma senza avere i riscontri emotivi ed economici d’un vero lavoro. Quando invece ci si rende conto che il proprio operato entrerà nel circuito del mercato vero, ancora con maggior verità si potrà operare e sentirsi parte di una società che con gli anni di carcerazione si sente sempre più lontana dal proprio essere. Ecco allora che si acquisisce sempre maggior desiderio di realizzare prodotti veri, validi, che lascino soddisfatti gli utenti esterni, e questa consapevolezza fa sentire meglio anche noi che lavoriamo. Questo perché ci sentiamo in debito con la società, e se in piccola parte con il nostro lavoro possiamo soddisfare e rendere felice qualche persona è come se restituissimo a questa società una piccolissima parte di ciò che, con i nostri errori, abbiamo tolto.

Io lavoro al call center dove prenoto le visite mediche per tante persone, ognuna diversa e con le problematiche più svariate, a volte purtroppo si tratta anche di malati terminali. Cerco di fare il mio lavoro con il massimo impegno, la massima concentrazione e la massima serietà. E alla fine della prenotazione, se sento che la persona è rimasta contenta nell’ottenere ciò che mi chiedeva, a maggior ragione lo sono anch’io, perché so che parte di quella “piccolissima felicità” l’ho potuta regalare io impegnandomi ed adoperandomi al massimo per trovare una soluzione al problema, piccolo o grande che fosse. Questo mi fa sentire un po’ più leggero, con addosso meno angosce del solito, e la gioia che provo mi fa sentire veramente libero e felice.

Quindi sì al lavoro in carcere, ma che possibilmente sia un vero lavoro e che permetta ai detenuti di confrontarsi con le tematiche della società, con il mercato aziendale, con tutte le difficoltà di un lavoro reale, e che possa permetterci di sentirci ancora facenti parte della società dalla quale siamo stati giustamente esclusi.

(Alberto)

 

Sono cittadino croato, condannato ad una pena “esemplare” e in carcere da otto anni. I primi anni di detenzione li ho passati in un altro carcere, dove il “mondo lavoro” quasi non esisteva: un paio di posti in cucina, due spesini, due addetti alle pulizie. Cooperative o ditte esterne che offrissero lavoro agli internati? Neanche l’ombra. Allora mi è sorta spontanea una domanda: ma per una persona che ha commesso un grave errore, che funzione ha il carcere?

Nella sfortuna che mi è capitata ho però visto la luce e la speranza quando mi hanno trasferito nel carcere penale “Due Palazzi” di Padova, un istituto, uno dei pochi a dire il vero, che offre un lavoro ai carcerati grazie al Consorzio “Rebus”, che impiega oltre ottanta reclusi.

Lavoro da circa quattro anni, prima in cucina e poi in pasticceria. I dolci che produciamo sono di alta qualità, e vengono venduti a pasticcerie esterne, bar, ristoranti, mense di Padova e non solo. Un anno fa ho chiesto ai miei responsabili di transitare in pasticceria per imparare quel mestiere, e dopo poco tempo mi è stata data questa possibilità. Produrre dolci è un bel mestiere, ma è difficile e mi impegna sempre di più, giorno dopo giorno, e allo stesso tempo mi dà anche un sacco di soddisfazioni, perché col mio lavoro sto facendo qualcosa di utile anche per gli altri.

Ogni volta che creo qualcosa lo faccio al massimo delle mie possibilità: so che quel dolce deve essere di qualità, esteticamente impeccabile e soprattutto buono, perché finirà sul tavolo di una festa, magari di un battesimo o di un matrimonio, quindi sento addosso tutte le responsabilità che un lavoro come questo richiede.

Durante l’ultimo periodo prenatalizio abbiamo prodotto i 32mila famosi panettoni che hanno fatto il giro del mondo, e quasi ogni giorno il nostro laboratorio era “invaso” da giornalisti e fotografi, da personaggi del mondo politico, culturale e dello spettacolo incuriositi da come una “squadra” di detenuti, capeggiati da tre maestri pasticceri esterni, potessero fare tali prelibatezze.

È proprio questo che serve in carcere, un lavoro serio che dia la possibilità di riflettere e di cambiare, sancendo così la vittoria dello Stato che riesce a portare tanti detenuti sulla strada di un vero reinserimento sociale e umano.

(Davor)

 

Per me la parola “lavoro”, che ora considero fondamentale, fino a una decina di anni fa era a dir poco incomprensibile. Fin da ragazzino avevo preferito la via del guadagno facile, tanti soldi in fretta e con poca fatica, al posto di una vita onesta e regolare. Pensavo che questo stile di vita mi avrebbe reso felice, potente, apprezzato e stimato, invece alla fine ho perso tutto, e ho veramente toccato il fondo. Poi, qualche anno fa, in questo carcere mi è stata data una possibilità, e ho imparato che una vita onesta ti fa sicuramente vivere meglio, perché non c’è nulla di peggiore che fare i conti, giorno dopo giorno, con la propria coscienza.

Da alcuni anni lavoro nei capannoni di questo carcere; prima sono stato nelle lavorazioni delle valigerie Roncato, successivamente nel laboratorio di confezionamento dei gioielli Morellato, e infine, attualmente, all’assemblaggio delle biciclette. Ogni lavoro, pur nelle sue diversità e nelle varie complicazioni, mi ha dato delle soddisfazioni, soprattutto quando ho cominciato a ottenere dei permessi premio: nelle valigerie, nelle gioiellerie e nei supermercati ho trovato moltissimi dei prodotti che, col mio lavoro e con le mie mani, ho contribuito a produrre. Fino a quando non potevo uscire quasi non mi rendevo conto di tutto quello che con le mie mani potevo fare, ma ora ho la prova provata e la consapevolezza che, se ci viene data un po’ di fiducia, siamo ancora delle persone capaci di fare delle cose buone e positive.

Se rimanessi oggi senza lavoro credo che impazzirei, perché ora, quando mi sveglio al mattino rendo grazie a Dio per tutto quello che mi sta dando, scendo al lavoro col sorriso sulle labbra e affronto la giornata con serenità e soprattutto con uno spirito completamente diverso da quello che, poco più di 15 anni fa, mi aveva portato a distruggere me stesso ma soprattutto tutti coloro che mi stavano vicino. Grazie al lavoro, e ad alcune persone che frequento in questo ambiente, ho anche scoperto la gioia e la fede in Cristo, e questo ha per me più valore di qualsiasi altra cosa, perché mi ha fatto scoprire e apprezzare un modo completamente nuovo di affrontare e di vivere la vita.

(Franco)

 

Potrà sembrare strano, ma diversamente da quel che si pensa la prima richiesta che solitamente la maggior parte delle persone detenute rivolgono alle direzioni carcerarie è proprio quella di lavorare, così da non rimanere sempre chiusi in cella e rendersi economicamente indipendenti, in modo da non gravare più di tanto sui familiari. Almeno inizialmente, quindi, la domanda di lavoro può essere quasi esclusivamente “strumentale” a una miglior qualità della vita detentiva, ma può anche succedere, soprattutto se si ha la possibilità di svolgere un’attività concreta, vera e produttiva, che l’approccio al lavoro si modifichi e si modelli col passare del tempo.

Anch’io, come quasi tutti i miei compagni, oltre a voler stare fuori dalla cella il più possibile dopo sette anni di carcere forzatamente ozioso in cui non avevo svolto alcuna attività (nel carcere dove mi trovavo prima non c’era praticamente nulla), nel 2001 chiesi insistentemente di lavorare perché, tra le altre cose, non sopportavo più di dipendere, anche nelle centomila lire mensili per le spese minime di sopravvivenza, da mia mamma pensionata al minimo.

Quindi, quando nel 2002 ho cominciato a lavorare nel laboratorio dei manichini per l’alta moda della Cooperativa Giotto, era soprattutto a questi due elementi che pensavo, e non avevo minimamente idea di come le cose sarebbero cambiate da lì a qualche anno. Nel 2005, infatti, la Cooperativa è riuscita in un progetto veramente rivoluzionario per un carcere, aprendo in questa struttura una “cellula” dell’ufficio prenotazioni delle visite mediche specialistiche degli ospedali e delle strutture sanitarie padovane, alle quali si rivolgono cittadini da tutte le parti d’Italia.

A causa delle sopravvenute esigenze aziendali mi sono così trovato catapultato, inaspettatamente e nel giro di pochi giorni, in una realtà lavorativa completamente nuova e per certi versi dolorosa. Da una telefonata settimanale di dieci minuti a mia mamma, l’unico mio “collegamento” con il mondo esterno nei 12 anni precedenti, sono passato a 50-60 telefonate giornaliere che ancora oggi, spesso e volentieri, mi danno emozioni inaspettate. Le voci dei bambini che piangono, il rumore del traffico in sottofondo, le voci dolci dei tanti anziani che chiamano e perfino i complimenti quando cerco in tutti i modi di risolvere un problema non mi hanno mai lasciato indifferente, ed ho riscoperto quanto importante sia mettersi a disposizione di chi si trova in difficoltà a volte insormontabili.

Mi è capitato di trattenere a stento le lacrime di fronte al disperato pianto di una giovane signora che doveva prenotare una visita per il papà malato terminale, e sono rimasto molto colpito dalla struggente disperazione di una mamma che, alla notizia che la figlia di dieci anni aveva un tumore al cervello, proprio pochi giorni prima aveva perso il figlioletto che aveva in grembo.

Io, che con i miei reati la sofferenza l’ho inflitta in modo molto pesante, non posso fare a meno, ogni volta, a soffermarmi su questi episodi strazianti, e questo confronto quasi quotidiano col dolore degli altri mi fa riflettere ancora più profondamente sulle mie scelte sbagliate.

Oltre a questo, a colpirmi è stata anche la manifestazione di fiducia che mi è stata concessa.

Mi sono sempre chiesto come fosse possibile, con tutto quello che avevo fatto, che i responsabili della Cooperativa Giotto avessero cercato proprio me, che di “garanzie” non ne offrivo nemmeno una; mi sono domandato come fosse possibile che ci fosse ancora qualcuno disposto a darmi una seconda chance, seppur limitata all’ambito lavorativo, e per di più in un’attività dove il contatto con le persone esterne è continuo e particolarmente delicato, e quindi sono stato costretto a rialzare la testa, a “reagire”. La conseguenza di tutti questi interrogativi è che non voglio e non posso permettermi di sbagliare, quindi cerco di lavorare sempre al meglio delle mie capacità, come in una sorta di dimostrazione - agli altri, ma ancor di più a me stesso - che “nonostante tutto” sono ancora in grado di fare e di dare qualcosa di positivo.

Da quando lavoro la “qualità” della mia vita detentiva è indubbiamente e nettamente migliorata: non devo più chiedere soldi ai miei familiari, anzi sono io che ogni tanto mando qualcosa alle mie figlie, ma nonostante questo, e contrariamente a quel che si potrebbe pensare, l’apertura di credito di persone disposte a puntare ancora di me ha avuto un effetto spiazzante, assolutamente imprevedibile, che anziché alleviare l’insostenibile peso della mia coscienza mi ha fatto sentire, ancora più prepotentemente, tutto l’affanno dei miei errori.

(Marino)

 

Appena entrato in carcere mi è stato assegnato un numero, il mio numero di matricola. Da quel momento ho sentito forte la perdita della mia identità e l’adattamento a un sistema nel quale non ho molti diritti, ma soltanto alcune concessioni. Poi, come un fulmine a ciel sereno, è arrivato questo lavoro, mi è stata accordata fiducia e l’opportunità di dimostrare che IO non sono soltanto un numero di matricola, non sono soltanto il reato che ho commesso… ma molte altre cose.

IO posso aiutare gli altri, regalare un sorriso, una parola di conforto.

E tutto ciò è stato possibile soltanto grazie all’opportunità concessami e al sorriso disarmante che ho trovato negli operatori e nei miei compagni di lavoro che già da tempo vivono questa esperienza. Sento che con questo lavoro sto riacquistando la mia identità, ora non mi vergogno più con i miei familiari perché in qualche modo anch’io ho ritrovato uno spazio nella società, e giorno dopo giorno sto dimostrando che l’opportunità offertami sta dando buoni frutti.

Aiutare il prossimo mi fa stare bene perché mi sembra quasi di ripagare, almeno in parte, il torto commesso. Ora vivo meno dolorosamente e meno inutilmente la carcerazione, perché sento che tutto questo non è più tempo perso.

(Fabrizio)

 


 

  


 

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2 novembre 2009 1 02 /11 /novembre /2009 07:24
PRIMA DI GIUDICARE BISOGNEREBBE AMARE.

Aldo Trento: Così Jessica è tornata ad essere Ruben

Non c’è vita disgraziata che non si possa salvare in un abbraccio carico di verità.

di Aldo Trento
L’uomo non è, non sarà mai il frutto dei suoi antecedenti biologici, psicologici o delle circostanze, fossero anche le peggiori. Se fosse così non esisterebbe la libertà. L’uomo è relazione con l’infinito. “Io sono tu che mi fai”: questo è l’essere umano. La testimonianza di Ruben, un tempo Jessica, ci racconta come non ci sia perversione che incontrando questa certezza, grazie ad un abbraccio umano carico di questa verità, non possa trasformarsi in una umanità nuova piena di gusto per la vita.
padretrento@rieder.net.py

Da quando sono nato, ho vissuto con mia madre, i miei quattro fratelli e le mie due sorelle. Eravamo poveri però felici, “felici” fino a quando arrivò il mio patrigno. Avevo 8 anni quando questa persona si portò mia madre in Argentina e io e i miei fratelli rimanemmo soli. Per un periodo vissi con un mio fratello che mi mandò via da casa sua. Andai a vivere con una delle mie sorelle che mi maltrattava molto; e fu così che iniziai ad andare di casa in casa, lavorando per poter studiare. Quando stavo per compiere 9 anni fui violentato da un signore. Fu la cosa peggiore che mi potesse capitare, ancora oggi non lo posso dimenticare. Fin da ragazzo ho conosciuto la sofferenza, la fame, la sete, il freddo, l’emarginazione. Ricordo che andavo in chiesa perché volevo fare la Prima Comunione – che alla fine non feci – e durante le celebrazioni perché mi passasse la fame gridavo forte: «Ti loderò!».
Quando avevo 12 anni, quasi 13, andai ad Asunción, stanco dei maltrattamenti della gente che si approfittava di me. Fu allora che conobbi alcuni travestiti. Loro, approfittando della mia innocenza, mi diedero l’idea di vestirmi da donna per guadagnarmi da vivere. Mi trasformai e iniziai a lavorare con loro. Anche da travestito soffrii molto, non solo sentivo il maltrattamento da parte della mia famiglia per essere quello che ero, ma anche degli sconosciuti che mi umiliavano, mi urlavano contro e mi discriminavano. Per questo decisi di vivere chiuso in casa durante il giorno, uscendo solo di notte per lavorare. Ricordo che avevo un grande specchio dove normalmente, dopo essermi lavato, guardavo il mio corpo di donna. Mentre mi guardavo, quasi di schianto mi dicevo: «Mio Dio, che cos’ho fatto? Io non sono questo!». Però immediatamente mi spuntava un frase che mi ripetevo come una giaculatoria, senza sapere come e chi me l’avesse insegnata: «No, io sono il frutto proibito, venuto al mondo per portare gli uomini alla perdizione». Sapevo che quello che facevo non era un bene, però c’era sempre qualcosa o qualcuno dentro di me che mi diceva ancora una volta “no” al bene. Adoravo anche un’immagine, una donna nuda con corna e coda, avvolta dal fuoco, che chiamavano la Bomba Gira, Maria Parrilla, protettrice delle prostitute, che mi compariva anche in sogno. Una volta prestai questa immagine a un’amica che però me la restituì perché l’aveva sognata mentre le diceva: «Restituiscimi a lei perché lei è mia, mi appartiene».

Rinchiuso in ospedale
Il tempo passò, stavo bene economicamente, avevo un’attività commerciale, i miei familiari si riavvicinarono a me. Io pensavo che mi volessero davvero bene, mi facevo in quattro per aiutarli. Fino a quando non scoprirono che ero affetto da Hiv. Furono i primi ad abbandonarmi.
Quando mi ricoverarono per due mesi, soffrii di nuovo molte umiliazioni, mi discriminavano per ciò che ero. Le infermiere non si preoccupavano di me, mi lasciavano chiuso in una stanza con un pannolone, e io dovevo stracciare ciò che portavo addosso per farne un pannolone. Le chiamavo e chiedevo aiuto, però ridevano e burlandosi di me dicevano: «Il grido di Tarzan». A tutti i pazienti raccontavano che c’era un travestito affetto da Hiv. Non lo potrò mai dimenticare. Passai solo anche il giorno di Natale, senza alcuna visita.
Soffrii molto il caldo, la fame, la sete, fino a quando non mi disidratai completamente. Arrivai quasi al punto di morire, per tre giorni rimasi svenuto e mentre ero in questo stato mi successe una cosa che vorrei raccontare. Sentii che mi trovavo in un luogo oscuro, tutto era oscurità, sentivo che non stavo nel mio corpo, nel mio subconscio mi dicevo che ero morto. Fu allora che mi ricordai di Dio e volli pregare, però non mi ricordavo nessuna preghiera. Ci provai, e quando stavo dicendo «Padre Nostro che sei nei cieli»… vidi una piccola luce davanti a me che si faceva sempre più grande mano a mano che mi ricordavo di questa preghiera, continuava a crescere finché non arrivò a una grandezza di 20 centimetri circa e smise di crescere. Allora cominciai a piangere e a chiedere a Dio di non lasciarmi morire in un luogo così brutto, e promisi di cambiare. Dopo aver pregato tanto durante questi tre giorni, mi apparve improvvisamente un Pastore, un uomo che io non conoscevo venne a visitarmi, mi chiamò per nome e mi disse: «Ruben, ce ne andiamo». «Dove?», gli chiesi. Mi rispose: «C’è una clinica a San Rafael». Un amico che era stato ricoverato qui mi aveva parlato di quanto era bello questo posto. Mi emozionai tanto e senza aver dubbi risposi: «Sì». «Preparati che vado a fare i documenti» disse. «Bene». E me ne andai.

Un posto pulito
Quando arrivai qui, rimasi stupito al vedere un luogo così bello, tutto bianco, e dissi: «Grazie Signore, non credevo di meritare tanto, un luogo così bello, così pulito». Le infermiere iniziarono a trattarmi molto bene, ricevetti tanto affetto da parte di tutti quelli che lavoravano qui e grazie a questo iniziai a rimettermi. Adesso cammino già poco a poco.
Conobbi suor Sonia e grazie a padre Aldo e a lei mi rimisi rapidamente, tanto che loro stessi si stupirono della mia guarigione. E ciò grazie all’attenzione che mi davano e all’amore che mi dimostravano, che non avevo mai ricevuto prima da parte di sconosciuti. Sono diventato amico di molti qui, di persone che mi amano, come le volontarie che mi insegnano a pregare e mi parlano della vita dei santi. Sono tranquillo, sento tanta pace! Prima di venire qui non potevo dormire, avevo sempre incubi, cose brutte, perché la vita che conducevo non era per niente bella. Adesso sono felice, sono ingrassato e ho tre angeli: suor Sonia, il mio angelo bianco, e due volontarie. Padre Aldo è il mio “Padre Santo”, come lo chiamano le volontarie, che mi dicono sempre: «Tutto quello che ti sto insegnando l’ho imparato da lui». In 34 anni di vita è l’unico padre che ho sentito che ama tanto gli ammalati. Tutte le notti fa il suo giro per vedere se stiamo bene e chiede alle infermiere che non ci manchi nulla.

«Sei un’altra persona»
Prima di venire qui sono stato ricoverato in tre ospedali, però non ho mai ricevuto un’alimentazione così buona come qui, con colazione, spuntino, pranzo, merenda e cena. E se vogliamo possiamo ripetere, chiediamo e ce ne danno di nuovo. Grazie a padre Aldo, che fa di tutto perché possiamo essere a nostro agio, noi e anche i familiari degli ammalati.
Ho fatto qui la mia Prima Comunione e la Cresima. Sono stati giorni emozionanti, i migliori che avrei potuto passare nella mia vita. Prima io non credevo in Dio e pensavo: «Se esisti, perché c’è tanta povertà, perché mi hai tolto tutto, perché io soffro tanto?». Dio mi ha dimostrato che mi sbagliavo, che non mi ha abbandonato mai.
Nessuno riesce a credere al mio cambiamento, tutti i miei amici mi dicono: «Sei un’altra persona», «Sei ri-cambiato Ruben», «Spero che preghi molto per noi perché ne abbiamo bisogno». Ho regalato un Rosario a una mia amica e si è sorpresa quando le ho detto: «Perché Dio ti benedica e ti protegga», prima non parlavo così con nessuno.
Ciò che faccio di più è pregare. Prego così tanto che addirittura una delle mie sorelle è cambiata nel rapporto con me, mi chiama tutti i giorni per sapere come sto. E anche un mio amico ha cambiato vita ed è venuto a vedermi. Per me tutto è Gesù e san Giuseppe, visto che il mio compleanno è il giorno di questo sant’uomo. Prego tutte le notti per padre Aldo, suor Sonia e tutti i pazienti.

Padre: mi manchi molto, desideriamo che torni presto. Che Dio abbia cura di te e ti protegga.
Ruben
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5 ottobre 2009 1 05 /10 /ottobre /2009 07:42
Quello che vale per l'Africa vale anche per l'intero occidente , vale anche per ognuno di noi. Impariamo da queste belle testimonianze.
Ciao Artemio

Rose Busingye: L’Africa ha bisogno della pazzia di Dio

«Soltanto l’esperienza di un amore infinito per il nostro niente produce la riconciliazione, la pace e la giustizia che cerchiamo». Il Sinodo del continente nero visto da una sua protagonista

di Rose Busingye
Il titolo del Sinodo africano è “La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. La realizzazione di questo programma dipende tutta dal cuore dell’uomo africano e dalla sua educazione. Cristo è venuto, la questione è accorgersi che questo cambia tutto, cambia il mio modo di trattare me stessa e di comportarmi con gli altri e con le cose. La questione è l’appartenenza a Lui. Appartenenza vuol dire essere stata preferita, vuol dire che Qualcuno mi ha voluto. Questo supera tutti i contrasti che abbiamo fra tribù, politici e altri interessi costituiti. Veramente la pace per l’Africa dipende dall’incontro tra il cuore dell’uomo e Cristo. Perché l’appartenenza a Cristo supera l’appartenenza al gruppo tribale e colloca quest’ultima al giusto posto, col giusto valore. Ma questo avviene solo se la fede penetra gli strati profondi dell’umanità, arriva là dove si formano i criteri di percezione delle cose. Allora l’appartenenza diventa la forza dell’io, e la persona diventa libera e protagonista.
Perché questo avvenga è fondamentale l’educazione. L’uomo africano ha un altissimo senso religioso, ha un fortissimo senso dell’appartenenza, ma essi devono essere educati. Ci si deve educare ad accorgersi che il compimento è già con noi, che la risposta è già presente, e non è una magia o un modo di credere sentimentale che la rendono presente. L’uomo africano possiede un senso religioso veramente alto, non c’è un africano che non sia consapevole di dipendere da Qualche cosa di Altro, che non abbia questo senso di dipendenza da Qualcosa. Lo chiama “Spirito” o con un altro nome, lo cerca nelle magie, ma comunque non può vivere senza avere qualcosa da cui dipendere. Nessun africano mai direbbe, come fanno tanti europei, «sono nato, adesso sto qua e questo è tutto». No: l’africano ha sempre viva la questione dell’origine.

L’incontro che manca
Il problema è che la maggior parte degli africani, e anche dei cristiani, non può testimoniare di un incontro in cui si è sentito dire: «Sono Io che cerchi». Perché troppo spesso Cristo non è stato presentato come qualcosa che è già presente in noi, ma come qualcosa che arriva dal di fuori. Così oggi tanti studiosi africani scrivono che il Dio cristiano è stato importato dai bianchi e che il cristianesimo non è riconciliato con l’identità e la cultura africane. Per me e per tanti amici non è così, perché il modo in cui ci è stato presentato il cristianesimo, attraverso la persona di don Luigi Giussani e di chi lo seguiva, è stato diverso. È come se ci fosse stato detto: «Tutto quello che hai cercato negli spiriti, nelle magie, c’è già, è presente, è quello che ha fatto te, ti ha fatto nascere, ti fa respirare. E io ti dico il suo nome». Invece è come se a tanti africani chi ha presentato il cristianesimo avesse detto: «Metti via tutti gli idoli, tutte le tue cose, io ti ho portato Dio, io ti ho portato Cristo». Come se Cristo fosse una proprietà. Ma Cristo non lo possiede nessuno, viene come vuole Lui, come disegna Lui, viene in ogni uomo di questo mondo.

La magia, gli spiriti e la vita quotidiana
La conseguenza del non presentare Cristo come qualcosa che è in te, ma come qualcosa che viene da fuori, fa sì che alla fine, per molti, c’è un Dio del bianco e un Dio dell’africano. E quando c’è una difficoltà, una malattia, anche i cristiani a volte guardano dalla parte del Dio africano e dicono: «Forse sono gli spiriti». Così vanno da quelli che voi europei chiamate gli “stregoni”. Che riempiono la loro mente di paura. Gli stregoni li terrorizzano, la loro mente si riempie di reazioni che vengono dalla paura: e loro stessi si convincono che per guarire la loro mente dovrà essere torturata e riempirsi di credenze frutto della paura. Anche le sètte che mescolano il cristianesimo con gli spiriti, quelle dei cosiddetti “salvati”, seguono lo stesso metodo degli stregoni: producono agitazione e suggestione nella mente, ti convincono che la presenza di Dio o degli spiriti buoni è legata a una magia, e che tutto nella vita può essere ottenuto in modo magico. È un Dio che ti dice: «Posso farti avere tutto per magia». Ma non è un Dio che entra nella tua vita normale, che la vive con te, che la porta con te. È un Dio della suggestione psicologica: alla fine della preghiera ti senti guarito, ma il giorno dopo stai peggio di prima.
Ma Dio è questa tenerezza che è venuta nel mondo, che ha avuto pietà di noi e ci tocca tutti quanti. È ciò che Benedetto XVI ha espresso nelle sue tre encicliche, soprattutto nella Deus caritas est, dove descrive Dio con questo amore infinito: «la pazzia divina», come ha scritto. La pace e la riconciliazione nascono da questa esperienza di Dio: Dio ha preso me, che ero niente e che sono niente, mi ha preso così come sono, e nella quotidianità. Quel che viene naturale dire è: «Io voglio partecipare a questa pazzia di Dio, a questo essere di Dio». Questa cosa, nel tempo, fa sì che non mi adiro più per i peccati altrui, per le ingiustizie che l’altro ha compiuto nei confronti miei e di altre persone. Nell’esperienza dell’amore divino, non ha più penso che io misuri i peccati miei e degli altri. Nel tempo questo produce serenità e il desiderio che il mio incontro con ogni essere umano sia tenerezza, non uno sforzo o un ripetere parole o un cercare di essere più bravi degli altri.
Qui da me a Kampala arrivano ragazze di tribù ostili alla mia, giovani che hanno combattuto o sono stati bambini soldato. Dovrei averne paura o provare disprezzo per loro. E invece queste cose non mi toccano più: per me sono persone amate e volute da Dio, che hanno continuamente bisogno di essere amate e volute. Se hanno bisogno di mangiare do loro da mangiare, se hanno bisogno delle medicine do loro le medicine. Quando arrivano le accolgo come tutti gli altri bambini, non in base al discrimine se hanno rubato e ucciso oppure no. Appartengono a Cristo, e quindi appartengono anche a me.
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20 settembre 2009 7 20 /09 /settembre /2009 00:02

Anche "SUPERMAN" Berlusconi non riesce ad accontentare tutti , e dire che l'altra sera a Porta a Porta  ci avevo quasi creduto......

 

 

superman
s. m. inv.  (pl.  ingl. supermen ) Uomo dotato di straordinarie qualità fisiche o (est., scherz.) capacità operative o professionali. ETIMOLOGIA: dal nome dell'omonimo personaggio di fantasia che compie imprese inverosimili.


Diario da L'Aquila - La storia di Pina: “dalla tenda non me ne vado”. L'altra faccia del dopo-terremoto

di Fabio Capolla, giornalista de Il Tempo
Tratto da Il Sussidiario.net il 18 settembre 2009


Il dramma, la disperazione, lo sconforto, la stanchezza. Stati d’animo che si incontrano con sempre più frequenza girando per L’Aquila.

Non tutti hanno la fortuna di aver già la certezza di una casetta in legno o un appartamento. Solo oggi verranno rese note le graduatorie per l’assegnazione degli alloggi nell’ambito del progetto Case. Nel frattempo, entro la fine di questa settimana, altre tendopoli chiuderanno. I loro occupanti saranno dirottati in alberghi della provincia dell’Aquila. C’è chi si ritroverà a decine di chilometri dal luogo di lavoro.

Ieri una donna si è barricata nella sua abitazione, gravemente lesionata. «Meglio vivere a casa mia, che rischia di crollare, piuttosto che andare a settanta chilometri dal luogo di lavoro». Pina Lauria, 45 anni, ha creato scompiglio ieri in città. Dopo essere entrata in casa ha avvisato i vigili del fuoco. Davanti alla sua abitazione in pochi minuti autoscale dei pompieri, macchine della polizia, un’ambulanza. I vigili urbani hanno chiuso una zona importante della città bloccando di fatto il traffico. «Lavoro all’Agenzia delle entrate, non ho la patente, ho due genitori di 85 anni, invalidi al 100% entrambi. Mi dite come posso accettare di trasferirmi a Castellafiume, nella Marsica, a 70 chilometri? Non sarei rimasta a L’Aquila dopo il 6 aprile, non avrei accettato di vivere da subito in tenda per rimanere in città, vicino al lavoro, vicino ai miei genitori. Avrei scelto un albergo, in riva al mare, con il sole dell’estate».

Uno sfogo fatto da balcone di casa sua, sopra quei pilastri che sono stati spezzati dalla violenza del terremoto. Casa sua è da abbattere, non può essere ristrutturata. Per lei, con ogni probabilità, neanche la possibilità di un alloggio. «Questa è una deportazione – aggiunge Pina – poi ci sono passaggi poco chiari. Ci sono persone che non sono neanche residenti all’Aquila che hanno avuto assegnato un albergo in città. Io da questa città non me ne vado». Voleva certezze per uscire da casa, voleva che la protezione civile cambiasse le carte in tavola, le desse una nuova sistemazione. Non ce l’ha fatta, è uscita in serata solo con la promessa di un parlamentare del Pd.

Un episodio singolo, che rischia di propagarsi a dismisura. Già questo fine settimana ci saranno persone che minacciano di non abbandonare le tendopoli. In alcune, formalmente già chiuse, alcuni irriducibili sono voluti rimanere. Non hanno più luce, acqua, bagni chimici. Una sorta di braccio di ferro che rischia di inasprire la vita di tutti i giorni, i rapporti con gli enti locali. «Io dall’Aquila non me ne vado – racconta Antonietta – preferisco un piumino in tenda che andare a finire a cento chilometri. Come me tante altre persone. Ci sono aspetti che non funzionano. Meglio qualche container e maggiori disagi che un albergo lontano da tutto e da tutti».

Le difficoltà, l’avvicinarsi dell’inverno. Tanto è stato fatto e si sta facendo. Ma il dramma del terremoto si prepara a una nuova pagina. Sicuramente preoccupante, si spera però che protagonisti non siano i disordini.

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12 agosto 2009 3 12 /08 /agosto /2009 09:19

Ecco cosa hanna da fare di importante  i nostri bravi amministratori



Le ordinanze Sono 556 gli atti approvati dai Comuni
Stop a castelli di sabbia, sagre e fuochi d' artificio L' estate dei divieti

Giardinaggio Multe salate per chi usa il tagliaerba e per chi si ferma a parlare per strada

 

MILANO - Ce ne sono per tutti i gusti. I sindaci fanno ormai a gara a chi sforna l' ordinanza più originale e restrittiva. In tema di vita notturna e consumo di alcolici come di recente Milano e Roma, ma anche di bon-ton «balneare», uso e abuso delle panchine, costumi religiosi o etichetta cimiteriale. Tutto è cominciato con una legge dell' anno scorso che dà carta bianca ai Comuni. E i primi cittadini non si sono fatti pregare. I divieti emanati per delibera sono ad oggi 556, partoriti in larga parte al Nord (330). Ne esistono di curiosi, altri che si imitano a vicenda. Ma su certe questioni non tutti i sindaci-sceriffo la pensano allo stesso modo. L' alcol proibito Milano e Roma, che impongono serate analcoliche ai minori di sedici anni, hanno ispirato decine di altri Comuni in tutt' Italia. Ravenna, Bergamo, Pavia, presto Napoli e Palermo. Ieri l' ondata di sobrietà ha raggiunto la punta della penisola, e anche Pizzo Calabro si è allineato alla linea dell' astemia per legge. In tema di proibizionismo la medaglia spetta però a Bologna, dove chi vende alcol deve chiudere i battenti tassativamente entro le 22. Tuttavia per gli amanti di vino e affini (anche se maggiorenni e vaccinati) c' è una minaccia molto più subdola: si tratta della direttiva comunitaria sul consumo di alcolici in «spazi e aree pubbliche senza licenze». In parole povere, addio alle feste paesane. Ve l' immaginate la sagra dello gnocco fritto senza lambrusco? Le ordinanze balneari Il sole estivo solletica l' estro sanzionatorio degli amministratori. E così, in certe località liguri, la mise concessa alle bagnanti di ordinanza in ordinanza è diventata sempre più austera e coprente, avviandosi pericolosamente verso il burqa (peraltro vietato nella leghista Azzano Decimo). A Capri e Positano sono banditi gli zoccoli (ma solo perché disturbano la pennichella), nel golfo di Amalfi stop ai fuochi e sotto gli ombrelloni di alcune spiagge dell' Oristanese non si può più fumare. Ad Eraclea ha fatto storia la delibera vagamente surreale di qualche anno fa che vieta di costruire castelli di sabbia. E se a Eboli non ci si può baciare in auto, a Forte dei Marmi costa molto caro prendersi cura del giardino: su taglia-erbe e motosega pende una taglia di 500 euro. Parchi e panchine Il proibizionismo selvaggio dilaga poi nei parchi pubblici. E così le panchine sono negate ai minori di 70 anni nei parchi di Vicenza. Non si fuma in quelli di Napoli, Bolzano e Verona; a Pordenone e Novara vietano gli assembramenti e a Voghera dopo le 23 nei giardini comunali non si può neppure entrare. L' elenco potrebbe continuare a volontà, vale la pena segnalare solo qualche caso. Nella solita Sanremo dell' iperattivo sindaco Maurizio Zoccarato non è consentito stendere i panni, passeggiare in costume, parcheggiare il camper, vendere fiori o giocattoli per strada, per non parlare della chincaglieria da ambulanti. Nei cimiteri napoletani d' estate i fiori vanno deposti col contagocce, mentre a Lugo di Romagna un regolamento dispone cosa scrivere sulle lapidi. Multe salate puniscono chi la fa per le strade di Trieste, ne sa qualcosa un turista polacco che ha osato innaffiare la statua di Sissi. Ma il divieto dei divieti è stato escogitato a Trento. Qui in pratica è vietato protestare contro tutta questa foga proibitoria. E chi si permette di toccare gli ormai familiari cartelli sbarrati di rosso pagherà 428 euro di multa. Antonio Castaldo

Castaldo Antonio

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5 agosto 2009 3 05 /08 /agosto /2009 15:19

 

Finalmente in ferie , le sacrosante ferie tanto amate e aspettate come se fossero un miraggio.Ma ci siamo e cerchiamo di godercele per bene. Perchè dico "cerchiamo" , perchè sappiamo che "ferie " non sempre equivale a riposo , ma per noi mariti tante volte corrisponde a fare "tanti tanti " lavoretti. "Ci sarebbe da pulire e mettere in ordine il solaio , ci sarebbe da grattare le finestre, ci sarebbe da piturare la camera dei bambini perchè è già due anni che non l'ho facciamo , ecc ecc ecc.. Ecco quando si avvicinano le ferie io tremo al solo accenno ci sarebbe da fare..... E devo dire che mia moglie , quella Santa donna è abbastanza comprensiva , ma per ovviare a certi fraintendimenti quest'anno mi sono preso una sorta di anno sabbatico e mi sono posto due semplici regole che cercherò di far valere per tutto l'arco delle ferie .    ciao a tutti  e buone ferie dal vostro Punzecchiatore


I due comandamenti del vacanziero

da rispettare assolutamente in queste ferie

 

 

 

 

1)  La casa è al servizio dell’Uomo,  non l’Uomo al sevizio della casa

 

2)  Non fare oggi quello che potresti benissimo fare domani

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Presentazione

  • : IL PUNZECCHIATORE
  • : ....oggi come oggi si tende a non esprimere pubblicamente le proprie idee per non urtare la sensibilità dell'altro,questo alla lunga può far perdere la propria identità ad un intera generazione. A.O
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