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20 aprile 2009 1 20 /04 /aprile /2009 07:43
Darfur, dramma nascosto al mondo con l’espulsione delle Ong straniere
Africa - lun 20 apr
Oggi la Giornata mondiale di sensibilizzazione sulla catastrofe umanitaria • Il governo dice di essere in grado di garantire l'assistenza ai rifugiati Ma nei campi le condizioni di sicurezza e di sussistenza rimangono disastrose
di Paolo M. Alfieri
Tratto da Avvenire del 19 aprile 2009

A ormai più di un mese dalla richiesta di un mandato d’arresto per crimini di guerra nei confronti del presidente sudanese Omar Hassan el- Bashir (emessa dalla Corte penale internazionale dell’Aja), il regime di Khartum continua a sfidare la comunità internazionale. Nel corso di u­na nuova visita nel Darfur, Ba­shir è infatti tornato a sottoli­neare nei giorni scorsi che la giustizia internazionale non ha alcun potere e alcun ruolo in Sudan, e che spetta invece ai tri­bunali locali occuparsi dei col­pevoli dei crimini nella regione occidentale. Per i giudici del­­l’Aja, però, proprio Bashir è da considerarsi l’imputato nume­ro uno della catastrofe, a causa dell’appoggio che il regime ha dato in questi anni ai miliziani filo- governativi janjaweed e ai continui bombardamenti nei villaggi della regione.

Da parte sua Bashir, annun­ciando l’avvio dell’attività di u­na commissione per la pacifi­cazione fra le tribù, ha detto che «dopo la riconciliazione inda­gheremo su quelli che hanno commesso reati, quelli che so­no stati uccisi e quelli che han­no ucciso. Ognuno vedrà ri­spettati i suoi diritti, questa è giustizia».

Forte del sostegno ricevuto so­prattutto dall’Unione africana e dai leader della Lega araba, nelle scorse settimane Bashir ha sfidato il mandato d’arresto in­ternazionale recandosi più vol­te all’estero (tra le sue tappe l’E­ritrea, la Libia, il Qatar e l’Ara­bia Saudita). Khartum si è im­pegnata a collaborare piena­mente con l’alta commissione formata dall’Unione africana, sotto la guida dall’ex presiden­te sudafricano Thabo Mbeki, per indagare sulle cause del conflitto del Darfur e per ela­borare raccomandazioni che portino alla sua fine. La com­missione ha ancora a disposi­zione quattro mesi di tempo per concludere i suoi lavori ed è previsto torni in Sudan prima della fine della missione.

«Questo conflitto dura da trop­po tempo – ha detto Mbeki du­rante la visita a Khartum – è molto oneroso sotto vari aspet­ti. Bisogna fare qualcosa per far­lo finire il più presto possibile». Per il momento Bashir continua a rifiutare il ritorno sul campo alle 13 Ong straniere espulse con l’accusa di spionaggio a fa­vore dei giudici dell’Aja. Il go­verno sudanese sostiene di es­sere in grado di proseguire da solo nell’attività di assistenza umanitaria agli sfollati, ma le Nazioni Unite hanno già sotto­lineato il rischio che l’impegno del regime si riveli largamente insufficiente.

A livello diplomatico, da se­gnalare la missione dei giorni scorsi in Sudan dell’inviato speciale del presidente Usa Ba­rack Obama, Scott Gration. Se­condo quest’ultimo, Washing­ton e Khartum hanno «una nuo­va opportunità di costruire un rapporto di fiducia in presenza della nuova amministrazione Usa».

La visita di Gration in Sudan e Darfur ha dato all’inviato ame­ricano la possibilità «di avere conoscenza di prima mano del­la situazione umanitaria e del­la sicurezza, invece di formarsi idee e impressioni basate su im­magini e dati riferiti». Gli Stati Uniti sono ora «pronti ad inter­venire positivamente sulla si­tuazione del Darfur», ha con­cluso lo stesso Gration.

Da parte sua, il segretario delle relazioni esterne del partito su­danese al potere, il National Congress Party (Ncp), Mustafa Osman Ismail, ha rilevato che «la nuova amministrazione del presidente Obama ha bisogno di tempo per avere chiara la si­tuazione generale del Sudan».

La Casa Bianca, all’indomani del mandato di cattura contro el- Bashir, era stata chiara: «Chi ha commesso atrocità deve es­sere chiamato a risponderne», era stato il messaggio rivolto a Khartum. Ma il margine di ma­novra di Obama, con un Bashir sotto accusa ma ancora così ben protetto, è inevitabilmente ri­dotto. L’azione diplomatica de­gli Stati Uniti, che con Londra costituiscono il fronte di oppo­sizione al regime, non si ferma. Anche John Kerry, ex candidato presidenziale e capo della com­missione Esteri del Senato di Washington, è in questi giorni in Sudan per una visita ed ha in- contrato diversi alti funzionari del Paese. A suo parere il Sudan sarebbe disposto ad autorizza­re l’ingresso di nuove Ong nel Darfur, senza però precisare se si tratti delle stesse organizza­zioni islamiche ipotizzate dal presidente egiziano Mubarak dopo l’incontro di due settima­ne fa con Bashir. «Verrà riutilizzata parte della ca­pacità atta a garantire assisten­za umanitaria», ha dichiarato l’altro ieri John Kerry, sottoli­neando tuttavia di aver «ribadi­to a tutti i leader che un parzia­le ripristino della capacità non è sufficiente. Il tempo è essen­ziale per evitare una catastrofe umanitaria».
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20 aprile 2009 1 20 /04 /aprile /2009 07:39
Obama «libera» l'America un po' meno però del previsto
Nord America - lun 20 apr
Niente soldi per clonazione, ibridi e creazione di nuovi embrioni
di Assuntina Morresi
Tratto da Avvenire del 19 aprile 2009

È diventata una consuetudine nei mezzi di comunicazione: se una notizia non va nella direzione 'giusta', non se ne parla. I giornali la ignorano, e i loro lettori non la conosceranno.

Se invece è funzionale a certe ideologie va sbattuta in prima pagina con titoloni sussiegosi. È per esempio il caso delle politiche del presidente americano Obama in tema di ricerca scientifica. Sembrava che l’opinione pubblica mondiale avesse abbracciato con entusiasmo la sua 'liberazione' della scienza dai veti dell’aborrito Bush: le scelte sulla ricerca scientifica «devono essere basate sui fatti e non sull’ideologia», aveva affermato solennemente Obama fra applausi scroscianti, mentre firmava per eliminare alcuni limiti ai finanziamenti federali per le staminali embrionali umane. Con queste premesse i National Institutes of Health (NIH) hanno reso pubbliche l’altro ieri le linee guida della ricerca 'libera': è vietato l’uso di finanziamenti federali nella produzione di embrioni umani per la ricerca, nella creazione di embrioni misti uomo/animale, e pure nella cosiddetta clonazione terapeutica, quella spacciata come la strada maestra per la guarigione da terribili malattie, che ha fatto nascere la pecora Dolly.

Basandoci sui fatti, quindi, e non sull’ideologia, abbiamo linee guida più restrittive di quelle degli stessi NIH del 1994, quando per sostenere e regolare la ricerca sugli embrioni umani una commissione di esperti elaborò un documento in cui si dichiarava eticamente accettabile, e quindi finanziabile con fondi federali, la creazione di embrioni per certi tipi di studi. Allora fu lo stesso presidente Clinton a intervenire personalmente, vietando l’uso di denaro federale per produrre embrioni a fini di ricerca; il Congresso successivamente decise altri limiti ai finanziamenti, comunque senza mai porre divieti a questa linea investigativa, che è sempre stata libera, con fondi privati e statali.

Anche con Obama, quindi, proseguirà 'l’ipocrisia' – ma i sedicenti paladini della scienza, tanto loquaci quando era presidente Bush, avranno il coraggio di parlare così anche di Obama? – di usare linee staminali prodotte altrove, o con altro denaro. Not in my name: il contribuente americano continuerà a non collaborare alla creazione di embrioni umani per la ricerca. Adesso sarà possibile utilizzare denaro federale per progetti su linee embrionali già prodotte o su embrioni soprannumerari, cioè quelli creati per la fecondazione assistita e abbandonati nelle cliniche. Un margine molto più ampio di quello consentito dall’amministrazione Bush, ma una forte delusione per chi si aspettava una

deregulation, che spiega il silenzio quasi unanime dei quotidiani di ieri, nei quali non si trovava traccia della notizia delle nuove linee guida. D’altra parte, è noto che gli scienziati non vogliono lavorare su embrioni congelati, presi a caso fra quelli inutilizzati, ma preferiscono quelli 'freschi', creati ad hoc. Gli embrioni abbandonati sono un grande problema negli Usa: almeno mezzo milione, oltre all’indubbio dilemma etico, un fardello dispendioso per gli operatori del settore e una fonte di contenziosi giudiziari, come si può capire guardando la parte delle nuove linee guida dedicata al consenso informato di chi li cede ai laboratori.

Pagato il pegno delle promesse elettorali, insomma, Obama si atterrà ai risultati effettivamente ottenuti: niente soldi alla clonazione terapeutica, agli ibridi uomo/animale, e neanche alla creazione di nuovi embrioni su cui sperimentare. Nel testo introduttivo alle linee guida si dice che 'forse' il più importante uso potenziale delle embrionali è la produzione di cellule e tessuti per nuove terapie. Con quel 'forse' si ammette che neanche l’America 'liberata' di Obama reputa così promettente questa linea di ricerca, tanto da decidere di non sostenerla completamente. Un 'forse' che mette in dubbio le precedenti dichiarazioni di Obama, e che dovrebbe essere spiegato all’opinione pubblica dai nostri mezzi di comunicazione, i quali invece pare abbiamo deciso di ignorare bellamente la parte a loro scomoda della politica del presidente americano in tema di ricerca scientifica.

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17 aprile 2009 5 17 /04 /aprile /2009 07:35
UNA  MORTE  EROICA ?


16 APRILE  - di Assuntina Moressi
Le immagini e le storie di donne e uomini travolti dal terremoto a L’Aquila hanno allontanato, anche se per poco, tutto il parlare di libertà di morire degli ultimi mesi.

La morte che arriva all’improvviso e misteriosa, e porta via con sé uno e lascia l’altro che dorme accanto, apparentemente senza una spiegazione, ci ha preso a schiaffi, obbligandoci a guardare in faccia una realtà misteriosa, quella dell’esistenza di ciascuno di noi.

Pochi secondi per distruggere città e paesi, secoli di storia, e uno sconvolgimento di morte e macerie, e la lotta contro il tempo per salvare quante più persone possibile: questo abbiamo visto, e i fiumi di parole che abbiamo sentito negli ultimi mesi sull’autodeterminazione, sul diritto a morire, sulla libera scelta di morire, sono apparse nella loro vera consistenza, e cioè semplicemente ridicole.

Libertà di morire: ma di che cosa stiamo parlando? Cosa stiamo dicendo?

Non si tratta di eutanasia, non è neppure più questa la posta in gioco da quando è scoppiato il caso Englaro – la buona morte che si dà per pietà, l’omicidio che si commette per evitare sofferenze indicibili. Non è di questo che si discute, in realtà. Parlare di eutanasia oramai è fuorviante.

Qua si tratta  di apologia del suicidio, suicidio inteso come massima forma di libertà, il suicidio medicalmente assistito.

E un’intera società sembra correre dietro a questo surreale miraggio, il diritto a suicidarsi assistiti da un medico, il prossimo traguardo di civiltà.

Basta leggere alcuni commenti – non tutti - alla morte di Roberta Tatafiore, intellettuale femminista, che si è suicidata qualche giorno fa, programmando minuziosamente la sua fine negli ultimi tre mesi della sua vita  – una fine triste come lo può essere un suicidio in una camera d’albergo  – tanto da scrivere un memoriale che è arrivato postumo ai suoi più stretti amici, che immagino sarà oggetto di pagine e pagine di commenti, nelle prossime settimane.

Su l’Unità oggi Adele Cambrìa commentava “ammiro il suo coraggio: la sua morte così disperatamente eroica - un suicidio, non motivato, pare, da nessuna malattia inguaribile - é sostenuta da un discorso filosofico e letterario iniziato da oltre un anno; e che,approfondito in un testamento ancora non reso noto dalle amiche più vicine a lei, cui è stato indirizzato, forse aiuterà tutti e tutte a riflettere su un passaggio ineluttabile, a cui Roberta ha voluto accedere prima di noi. Per dare anche testimonianza di una società civile, quella italiana, che stenta a crescere su questi temi.”

Sì, hanno scritto proprio così: una morte eroica, quella di Roberta Tatafiore, perché il suicidio non era motivato da nessuna malattia inguaribile. Una testimonianza per una società che stenta a crescere su questi temi.

Ma, dico, io, siamo matti? Ma che stiamo dicendo? Di cosa stiamo parlando? Quale mefitico pifferaio maledetto stiamo inseguendo? Non vediamo l’abisso verso cui ci sta portando?

Io di eroico ho visto la gente di Abruzzo, quella che piangeva, quella che scavava le macerie, quella che guardava la distesa di bare, quella che pregava, quella che cerca di ricostruire.

Un angelo di Dio per tutti noi. E un l’eterno riposo per chi non c’è più. Roberta compresa.

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15 aprile 2009 3 15 /04 /aprile /2009 07:29
Pasqua - La testimonianza di un carcerato: ecco come ho scoperto il perdono
- mar 14 apr
di Dario Fortini
Tratto da Il Sussidiario.net il 11 aprile 2009

Quando mi è stato proposto di mettere sulla carta i miei pensieri sul tema del perdono, la cosa più spontanea è stata di chiedere a chi avevo di fronte se il perdono era inteso verso l’uomo o verso Dio; ironizzando sul fatto che con l’uomo mi sentivo a posto, e che con Dio avrei fatto i conti al momento opportuno.

Però ora, mentre scrivo, la mia domanda si fa più forte, e mi chiedo che cos’è per me il perdono, quello vero. Di certo se avessi dovuto definirlo qualche anno fa, vista anche la mia condizione di detenuto, mi sarei limitato a dire che il mio sbaglio lo sto pagando eccome, e che per questo non c’era alcun bisogno di dare un senso al perdono. L’orgoglio che avevo allora avrebbe risposto da solo alla domanda.

Del resto è abituale mettere l’orgoglio a confronto con l’errore; non solo nel contesto di un carcere, ma in tanti altri luoghi dove prevale un’educazione sbagliata. E lo si fa perché l’orgoglio fa parte dell’istinto umano, che spesso ha la pretesa di essere nel giusto, oppure perché si spera sempre che il prossimo possa capire la nostra giustificazione. Ma soprattutto, perché porsi con una facciata d’orgoglio è la cosa più semplice da fare; perdonare, infatti, è difficile. Il vero perdono non è qualcosa che vendi o che compri, non è un’opzione che puoi usare a tuo piacimento per rimettere a posto le cose quando non vanno, come a dire, semplicemente: “ok, ti perdono”.

Il vero perdono è la scelta più difficile, è lo strumento di crescita che il Signore ci dà quotidianamente insegnandoci ad usarlo, perché non puoi pretendere di perdonare, e tantomeno di essere perdonato, se prima non impari a porti nella condizione di saper perdonare te stesso.

Nella mia vita sbagliata, di buono in abiti da cattivo, sono sempre stato perdonato dalle persone che mi vogliono bene e al pari ho sempre cercato di perdonare, ma mi rendo conto che non era così, che continuavo a far del male a me stesso e a coloro che mi perdonavano, perché io per primo non mi perdonavo. Quelli erano perdoni pieni di ipocrisia, che servivano solo a star bene, momentaneamente, con me stesso.

Il vero perdono parte dal proprio cuore e deve essere vissuto senza pretese, sia che lo riceviamo, sia che a perdonare siamo noi. Non esiste altro modo per viverlo e, se esiste, è falso. Perché il perdono è un Bene più grande che ci viene donato e come tale va vissuto nel suo vero termine.

Forse mille persone prima di me avranno sillabato la parola perdono: per-dono, un qualcosa da regalare e ricevere dal prossimo, un qualcosa che dai con il cuore senza aspettarti niente, se non il ripartire di nuovo, insieme, in un percorso comune. Un qualcosa che ricevi con gioia perché un dono “vero” dà gioia immensa. Secondo me questo è il vero perdono: un dono offertoci attraverso una grande fatica, un’opportunità per non fermarci di fronte all’orgoglio, un cammino di fede.

Penso che il perdono dovrebbe essere la scelta di ognuno, e non solo perché deriva da un grande insegnamento, ma anche perché è qualcosa che nasce nel profondo del cuore di ogni uomo e, come ha ben scritto un mio compagno, il cuore di ogni uomo batte per le stesse cose per cui battono tutti gli altri cuori.

Buona Pasqua,
Dario Fortini
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11 aprile 2009 6 11 /04 /aprile /2009 07:40

IL CRISTO RISORTO  E' LUCE CHE SCONFIGGE TUTTE LE TENEBRE



DAL SANGUE DELL'AGNELLO RISCATTATI

Dal sangue dell'Agnello riscattati,
purificati in Lui le nostre vesti,
salvati e resi nuovi dall'Amore,
a Te, Cristo Signor, diciamo lode.


Con Te, siamo saliti sulla Croce,
con Te, nella Tua morte, battezzati;
in Te noi siamo, Cristo, ormai risorti
e in seno al Padre ritroviamo vita.

O Cristo, è la Tua vita immensa fonte
di gioia che zampilla eternamente:
splendore senza fine, in Te s'immerge
l'umana piccolezza dei redenti.


Il nostro giorno scorre declinando:
resta con noi, Signore, in questa sera,
e la certezza della nostra fede
illumini la notte che s'avanza.


Fa che la nostra morte sia assorbita
dalla luce gloriosa della Pasqua;
e, morti ormai della Tua stessa morte,
viviamo in Te, che sei la nostra vita.


O Padre di bontà, Te lo chiediamo
per mezzo di Tuo Figlio, ch'è risorto,
e per l'Amore eterno che ci guida
verso la dolce luce del Tuo volto.
Amen

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10 aprile 2009 5 10 /04 /aprile /2009 18:51
10 Aprile 2009
L'esperienza di un popolo
In questo Venerdì Santo non servono figuranti
Era tutto pronto per il Venerdì santo. L’antica processione del Cristo­morto legata ad una tradizione anti­chissima era pronta per sfilare nelle stra­de. All’Aquila era stata ripresa dai frati francescani di San Bernardino. Erano pronte le Confraternite cittadine per il mesto corteo lungo le strade buie e si­lenziose della città. Enti e associazioni di pubblica rilevanza erano pronti per la scorta al simulacro di Cristo. Erano pronti i cori e le orchestre di violini per elevare l’accorata preghiera del «Mise­rere» di Solecchi maestro abruzzese.

Quella struggente melodia cantata sol­tanto dalle voci maschili e sorretta dal suono di centocinquanta violini. Il po­polo era pronto per ascoltare la poten­za corale e la dolcezza melodica che crea un’atmosfera di profonda mestizia – co­me disse D’Annunzio – da far scaturire «una fontana di lacrime». Erano pronti per ascoltare «Miserere mei, Deus, se­cundum magnam misericordiam tuam».

C’era la paura legata alle scosse di ter­remoto ma nessuno poteva immagina­re il disastro e l’anticipo del Venerdì san­to dopo la Domenica delle Palme. L’Abruzzo è martoriato. I paesini arroc­cati tra il Velino e il Gran Sasso feriti nel­le loro abitazioni, nei loro vicoli, nelle lo­ro piazze e soprattutto nelle loro chie­se. L’Aquila è sventrata come in una guerra, vede sferzati dipinti e chiese, li­bri e documenti: 750 anni di storia can­cellati in pochi secondi. Il Venerdì santo si materializza in tutta la provincia con una processione cari­ca di dolore: senza chiese e senza figu­ranti. Ognuno soffre in silenzio senza capire il destino. Il grido di disperazio­ne di un giornalista locale dà il senso di questo dolore: «Non sono riuscito a sal­vare i miei due figli. Trent’anni di sacri­ficio cancellati in un attimo. Non ho più nulla. Adesso non ha più senso conti­nuare a vivere».

Di fronte al grido di do­lore di un uomo c’è da domandar tut­to. Domanda o mendicanza a Cristo presente in questo Venerdì santo anti­cipato. Il compimento del destino per­sonale e di un popolo passa attraverso la via misteriosa della croce. È straordi­naria la grande umanità e la grande solidarietà. È difficile descrivere l’impe­gno di quelli che continuano a scavare a mani nude. Ma questo Venerdì santo che sfila per le strade chiede ragioni so­lide per continuare a vivere, a ricostruire e a sperare. La paura in questo Venerdì santo ha av­volto la carne e la psiche di tutti. Tutto darebbe ragione a una notte senza do­mani. Tutto darebbe ragione allo scan­dalo di una sofferenza senza senso.

E­ra necessario che il popolo facesse e­sperienza del Venerdì santo senza rap­presentarlo. Era necessario che il po­polo recuperasse il senso della morte e della vita con i suoi morti innocenti. E­ra necessario che il popolo iniziasse a balbettare: «Di tutto io sono capace in Colui nel quale è la mia forza». Questo è il conforto del popolo in questa tragi­ca circostanza. Il dolore diventa il filo con cui la stoffa del popolo abruzzese è ritessuta. La prova più grande della vita, cioè del­la speranza sarebbe la morte, se Cristo non fosse risorto. La prova più grande sarebbe l’addio di tanti innocenti, se Cri­sto non fosse risorto.

Allora niente di­sperazione. Non abbiamo più nulla da temere dalla morte, dalla paura, dalle macerie, dalle scosse, dal fatto che non si ha più una casa da quando Cristo è ri­sorto da morte. Da qui riparte la spe­ranza di un popolo in ginocchio. E, in questa speranza, la tenacia concreta di tutto l’aiuto operativo che si può dare. Ci sono migliaia di persone ospitate da famiglie che hanno dato la loro dispo­nibilità. C’è il desiderio e la voglia di con­dividere questo momento di bisogno. Si riparte dal culmine di prove di questi giorni per sostenere ognuno ad accet­tare il Mistero di Dio prima trafitto tra le macerie e poi risorto
.
Angelo Lucio Rossi
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6 aprile 2009 1 06 /04 /aprile /2009 07:40
Ciao a tutti ,

credo che come ognuno di voi stamattina , mi sono alzato apprendendo una brutta notizia , quella del terremoto in Umbria . Le notizie sono ancora frammentarie ma parlano di diversi morti  ( al momento 13 accertati)  ma sicuramente saranno molti di più e spero vivamente di sbagliarmi . Cosa dire , davanti a queste cose io almeno rimango ammutolito , perplesso , amareggiato  pieno di commozzione e dolore  e pieno di domande . Una su tutte : ma dove è Dio quando succedono queste cose ?  La mia fede (poca ) davanti a tutto cio vacilla . L'unioca cosa che mi riesce da fare è PREGARE . 

CIAO   A TUTTI , CHE BRUTTA  GIORNATA.
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6 aprile 2009 1 06 /04 /aprile /2009 00:33

GIUSEPPINA BAKHITA (1869-1947) 
vergine dell'Istituto delle Figlie della carità Canossiane

 

  

Giuseppina M. Bakhita nacque nel Sudan nel 1869 e morì a Schio (Vicenza) nel 1947.

Fiore africano, che conobbe le angosce del rapimento e della schiavitù, si aprì mirabilmente alla grazia in Italia, accanto alle Figlie di S. Maddalena di Canossa.

La Madre Moretta

A Schio (Vicenza), dove visse per molti anni, tutti la chiamano ancora «la nostra Madre Moretta».

Il processo per la causa di Canonizzazione iniziò dodici anni dopo la sua morte e il 1 dicembre 1978 la Chiesa emanò il decreto sull'eroicità delle sue virtù.

La divina Provvidenza che «ha cura dei fiori del campo e degli uccelli dell'aria», ha guidato questa schiava sudanese, attraverso innumerevoli e indicibili sofferenze, alla libertà umana e a quella della fede, fino alla consacrazione di tutta la propria vita a Dio per l'avvento del regno.

In schiavitù

Bakhita non è il nome ricevuto dai genitori alla sua nascita. La terribile esperienza le aveva fatto dimenticare anche il suo nome.

Bakhita, che significa «fortunata», è il nome datole dai suoi rapitori.

Venduta e rivenduta più volte sui mercati di El Obeid e di Khartoum conobbe le umiliazioni, le sofferenze fisiche e morali della schiavitù.

Verso la libertà

Nella capitale del Sudan, Bakhita venne comperata da un Console italiano, il signor Callisto Legnani. Per la prima volta dal giorno del suo rapimento si accorse, con piacevole sorpresa, che nessuno, nel darle comandi, usava più lo staffile; anzi la si trattava con maniere affabili e cordiali. Nella casa del Console, Bakhita conobbe la serenità, l'affetto e momenti di gioia, anche se sempre velati dalla nostalgia di una famiglia propria, perduta forse, per sempre.

Situazioni politiche costrinsero il Console a partire per l'Italia. Bakhita chiese ed ottenne di partire con lui e con un suo amico, un certo signor Augusto Michieli.

In Italia

Giunti a Genova, il Signor Legnani, su insistente richiesta della moglie del Michieli, accettò che Bakhita rimanesse con loro. Ella seguì la nuova «famiglia» nell'abitazione di Zianigo (frazione di Mirano Veneto) e, quando nacque la figlia Mimmina, Bakhita ne divenne la bambinaia e l'amica.

L'acquisto e la gestione di un grande hotel a Suakin, sul Mar Rosso, costrinsero la signora Michieli a trasferirsi in quella località per aiutare il marito. Nel frattempo, dietro avviso del loro amministratore, Illuminato Checchini, Mimmina e Bakhita vennero affidate alle Suore Canossiane dell'Istituto dei Catecumeni di Venezia. Ed è qui che Bakhita chiese ed ottenne di conoscere quel Dio che fin da bambina «sentiva in cuore senza sapere chi fosse».

«Vedendo il sole, la luna e le stelle, dicevo tra me: Chi è mai il Padrone di queste belle cose? E provavo una voglia grande di vederlo, di conoscerlo e di prestargli omaggio».

Figlia di Dio

Dopo alcuni mesi di catecumenato Bakhita ricevette i Sacramenti dell'Iniziazione cristiana e quindi il nome nuovo di Giuseppina. Era il 9 gennaio 1890. Quel giorno non sapeva come esprimere la sua gioia. I suoi occhi grandi ed espressivi sfavillavano, rivelando un'intensa commozione. In seguito la si vide spesso baciare il fonte battesimale e dire: «Qui sono diventata figlia di Dio!».

Ogni giorno nuovo la rendeva sempre più consapevole di come quel Dio, che ora conosceva ed amava, l'aveva condotta a sé per vie misteriose, tenendola per mano.

Quando la signora Michieli ritornò dall'Africa per riprendersi la figlia e Bakhita, quest'ultima, con decisione e coraggio insoliti, manifestò la sua volontà di rimanere con le Madri Canossiane e servire quel Dio che le aveva dato tante prove del suo amore.

La giovane africana, ormai maggiorenne, godeva della libertà di azione che la legge italiana le assicurava.

Figlia di Maddalena

Bakhita rimase nel catecumenato ove si chiarì in lei la chiamata a farsi religiosa, a donare tutta se stessa al Signore nell'Istituto di S. Maddalena di Canossa.

L'8 dicembre 1896 Giuseppina Bakhita si consacrava per sempre al suo Dio che lei chiamava, con espressione dolce, «el me Paron».

Per oltre cinquant'anni questa umile Figlia della Carità, vera testimone dell'amore di Dio, visse prestandosi in diverse occupazioni nella casa di Schio: fu infatti cuciniera, guardarobiera, ricamatrice, portinaia.

Quando si dedicò a quest'ultimo servizio, le sue mani si posavano dolci e carezzevoli sulle teste dei bambini che ogni giorno frequentavano le scuole dell'Istituto. La sua voce amabile, che aveva l'inflessione delle nenie e dei canti della sua terra, giungeva gradita ai piccoli, confortevole ai poveri e ai sofferenti, incoraggiante a quanti bussavano alla porta dell'Istituto.

Testimone dell'amore

La sua umiltà, la sua semplicità ed il suo costante sorriso conquistarono il cuore di tutti i cittadini scledensi. Le consorelle la stimavano per la sua dolcezza inalterabile, la sua squisita bontà e il suo profondo desiderio di far conoscere il Signore.

«Siate buoni, amate il Signore, pregate per quelli che non lo conoscono. Sapeste che grande grazia è conoscere Dio!».

Venne la vecchiaia, venne la malattia lunga e dolorosa, ma M. Bakhita continuò ad offrire testimonianza di fede, di bontà e di speranza cristiana. A chi la visitava e le chiedeva come stesse, rispondeva sorridendo: «Come vol el Paron».

L'ultima prova

Nell'agonia rivisse i terribili giorni della sua schiavitù e più volte supplicò l'infermiera che l'assisteva: «Mi allarghi le catene...pesano!».

Fu Maria Santissima a liberarla da ogni pena. Le sue ultime parole furono: «La Madonna! La Madonna!», mentre il suo ultimo sorriso testimoniava l'incontro con la Madre del Signore.

M. Bakhita si spense l'8 febbraio 1947 nella casa di Schio, circondata dalla comunità in pianto e in preghiera. Una folla si riversò ben presto nella casa dell'Istituto per vedere un'ultima volta la sua «Santa Madre Moretta» e chiederne la protezione dal cielo. La fama di santità si è ormai diffusa in tutti i continenti.

 

 

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5 aprile 2009 7 05 /04 /aprile /2009 23:34
 LA FICTION
La vita di suor Bakhita
diventa un romanzo tv
L’importante è non guardarla con l’atteggiamento del bio­grafo. Perché Bakhita, la mini­serie che Raiuno manda in onda do­menica 5 e lunedì 6 aprile, non rac­conta per filo e per segno la vita della suora canossiana sudanese, ex schia­va, vissuta in Veneto alla fine dell’ 800 e canonizzata nel 2000 da Giovanni Pao­lo II. Per usare le parole della produt­trice Ida Di Benedetto e degli sceneg­giatori ( Filippo Soldi, Filippo Gentili e Dino Leonardo Gentili), «Bakhita, co­me tutti i film, è un’opera artistica. Se ci fossimo attenuti alla biografia, a­vremmo finito per fare un documenta­rio» .

Invece, «il progetto è partito dall’amore per la figura di Bakhita ed è stato scritto in modo da far capire al pubblico chi fosse questa santa. Su una cosa sono certa: non abbiamo tradito Bakhita, il suo animo, il suo valore, la sua profondità. Perché, per noi che brancoliamo in una società sempre più povera e fatta di senti­menti superficiali, quel­lo di Bakhita è un mes­saggio che deve far riflettere» . La fic­tion, dunque, ripercorre ( a suo modo) le vicende della vita della santa che, all’età di soli sette anni, venne rapita dal suo villaggio in Sudan e venduta più volte, durante anni di grande sof­ferenza fisica e morale. Arrivata in Ita­lia con il nome di Bakhita ( cioè «fortu­nata» , come l’avevano chiamata i suoi rapitori) per fare la bambinaia in una famiglia italiana, la giovane ebbe mo­do di entrare nel convento delle suore Canossiane di Venezia, di conoscere la religione cristiana e di chiedere il bat­tesimo, assumendo il nome di Giusep­pina.

Tre anni dopo, la scelta di farsi suora Canossiana, di servire il « Paròn » che non era più quello che la frustava, che la torturava, ma Colui che le fece ritrovare la gioia. Ad interpretare Bakhita è la giovane, Fatou Kine Boye, che ha trent’anni, vive nel nostro Pae­se da otto e, in realtà, è di religione musulmana, racconta così la sua espe­rienza: « Non avrei mai immaginato di poter recitare in un film, quando mi hanno detto che ero stata scelta, quasi non ci credevo. Non so se si presen­terà un’altra occasione ma sono felice di avere interpretato Bakhita che è un simbolo, un esempio da seguire. Io vengo dal Senegal, dove musulmani e cristiani vivono fianco a fianco senza lotte. Entrambi crediamo in un unico Dio. Però, prima di questo film, non e­ro mai entrata in una chiesa cristiana. Quando è successo, e ho visto anche Bakhita imbalsamata, mi sono davve­ro emozionata». Bakhita è interpretata anche da Stefania Rocca, Ettore Bassi e Francesco Salvi.

L’INTERPRETE UNA RAGAZZA MUSULMANA CHE FA LA COMMESSA A ROMA
Ad interpretare Bakhita, il regista Giacomo Campiotti ha voluto una giovane commessa di un negozio di abbigliamento del centro di Roma, che non aveva mai fatto l’attrice prima di questo film e che, finite le riprese, è tornata serenamente al suo negozio perché, dice, «con il lavoro aiuto la mia famiglia che è in Senegal, come fanno tutti gli africani che vivono in Italia». Fatou Kine Boye, che ha trent’anni, vive nel nostro Paese da otto ed è, altra curiosità, di religione musulmana Il regista Campiotti aggiunge: «Nonostante il suo primo provino sia stato un disastro, Fatou mi è sembrata subito l’unica in grado di interpretare una storia, come quelle di Bakhita, che racconta la necessità di trovare una senso profondo della vita, oggi purtroppo orientata solo al desiderio del possesso e avvelenata dalla paura per il 'diverso'».
Tiziana Lupi
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30 marzo 2009 1 30 /03 /marzo /2009 22:52
La scuola che sa farsi comunità non sarà più dimenticata
- lun 30 mar
Di questo abbiamo bisogno: dalle elementari agli atenei
di Francesco Alberoni
Tratto da Il Corriere della Sera del 30 marzo 2009

Ho un ricordo del primo anno di scuola media. Il mio professore si chiamava Murabito, era una brava persona, preparato, coscienzioso, ma non era popolare.

Tutti noi invece correvamo a sentire le lezioni di un altro professore giovane e vivace che ci leggeva l’Eneide. Prima la spiegava, o meglio la rappresentava in italiano, poi recitava dei versi in latino e tutti lo ascoltavamo estasiati. Non era un semplice docente, era un attore, un maestro, un leader. E attorno lui si era formata una comunità affiatata ed entusiasta. Anche le esperienze che ho fatto in seguito mi hanno confermato che gli studenti imparano quando si sentono parte di una comunità in cui studiano cose a cui sono interessati, dove si aiutano reciprocamente, inventano, sperimentano, si divertono. E dove il maestro non è colui che sa tutto e pretende tutto, ma la guida che li stimola, li guida, li corregge, suscita il loro entusiasmo, come avveniva nella scuola di Platone, di Aristotele, di Epicuro, nella bottega rinascimentale del Verrocchio, nel gruppo di Enrico Fermi in Via Panisperna. Una atmosfera che ho sperimentato nei laboratori di psicologia a Milano, di sociologia a Parigi, a Chicago.

In compenso però che tristezza, che senso di disagio provi in molti licei, in molti istituti tecnici, in molti corsi universitari dove studenti ed insegnanti non sono realmente interessati allo studio, non comunicano fra loro, attendono solo che la lezione finisca. Non vi percepisci l’avidità di sapere, il gusto di scoprire, la gioia di realizzare insieme una meta.

Eppure tutto questo si può ottenere. Lo vedo oggi nell’accademia del Piccolo Teatro, della Scala, nel Centro Sperimentale di Cinematografia. E non dobbiamo pensare che questa comunità di docenti e di allievi si realizzi soltanto ai massimi livelli, nei laboratori più avanzati. No, si può ottenere dovunque, anche in una scuola elementare, in un corso di cucina, in un laboratorio di elettronica, in una scuola di danza, perfino in una palestra di pugilato.

È di questo che abbiamo bisogno dappertutto, dalle elementari ai corsi universitari avanzati. Una scuola con un maestro, una comunità di sapere e di vita. Una scuola che gli allievi ricorderanno con piacere e orgoglio perché vi hanno plasmato la loro personalità, hanno imparato a lavorare insieme, a costruire insieme, ad affrontare insieme le difficoltà e a produrre cose belle, di cui essere fieri.
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