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10 marzo 2009 2 10 /03 /marzo /2009 07:35

 

Crisi vera, disoccupati reali: così finisce l'era postmoderna

Basta con lassismo e chiacchiere Adesso chiediamo concretezza


di Francesco Alberoni

 

Negli ultimi vent'anni molti sociologi erano convinti di aver identificato la tendenza evolutiva della nostra società. Questa da agricola è diventata industriale, poi post-industriale e, infine, post-moderna. Nella società postmoderna, ci spiegavano, spariscono non solo le ideologie ma tutte le certezze e lo stesso «principio di non contraddizione » per cui non dobbiamo più decidere se è vero questo o quello, sono veri tutti e due. Realtà ed illusione si confondono, non conta la realtà oggettiva ma solo l'immagine, l'apparenza.

Perde di importanza lo Stato nazionale come fonte di certezze, non c'è più bisogno del Welfare State. La gente si raggruppa in tribù, attorno ad una squadra di calcio, ad un blog, ad una marca. Secondo alcuni non si deve neppure più parlare di cittadini, ma di consumatori. Non si guarda al futuro, l'azienda vuole risultati a breve. Non ci si arricchisce facendo buoni prodotti, ma con astute operazioni finanziare. Tutto è provvisorio, liquido. Si cerca il successo subito, la notorietà subito, il piacere immediato, non importa come. Dominano l'individualismo e l'edonismo. Questa diagnosi su cosa sia e dove stia andando la nostra società è stata insegnata come dogma nelle università, nei master, nei seminari fino all'estate scorsa. Solo oggi incominciamo a renderci conto che quella che veniva descritta come tendenza storica era, in realtà, il sintomo di una malattia. Sono state proprio l'indifferenza al futuro, l'incapacità di prevedere, la ricerca del profitto a breve termine, le spregiudicatezze nelle operazioni finanziare tanto ammirate a scatenare la crisi mondiale. No, il postmoderno non rappresentava il domani.

Oggi ci rendiamo conto che continua ad esserci differenza fra reale e immaginario, fra realtà e apparenza. Ci sono banche e imprese che falliscono realmente, ci sono disoccupati veri, poveri veri, e occorrono investimenti veri, non immaginari. Il principio di non contraddizione non è scomparso perché bisogna fare davvero delle scelte, prendere davvero delle decisioni. Il consumatore non è più il re capriccioso di ieri, deve fare i conti con precisione. E tutti tornano a guardare allo Stato, a chiedere aiuti e certezze allo Stato, per prime le orgogliose banche e le grandi imprese.

Ciascuno di noi torna a progettare con accortezza, con vigilanza. E non sopportiamo più il lassismo, il press'a poco, le chiacchiere. Chiediamo realismo, precisione, rigore, concretezza.

09 marzo 2009

 

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8 marzo 2009 7 08 /03 /marzo /2009 15:09

Eccomi qua sono arrivato ......

Alcuni di voi già mi conoscono ,altri spero di incontrarli in questo viaggio che oggi vado ad iniziare .Mi chiamo Artemio ,per gli amici Arte, e mi firmerò in questo blog come Arte Il Punzecchiatore o semplicemente il Punzecchiatore .Sto per compiere a breve 50 anni ma non mi pesano , anzi ho ancora tanta voglia di "Punzecchiare".

Cosa vuol dire ?

Ho voglia di confrontarmi con chiunque lo voglia su diversi argomenti e tematiche che animano il nostro vivere quotidiano .

Come?

Il tono deve essere quello di un confronto a volte anche critico ma comunque sempre rispettoso leale e sincero.

Perchè?

Perchè ritengo che a volte siamo disattenti  o superflui nel leggere molte notizie sui giornali o alla TV. Alcune notizie ,quelle che riteniamo più importanti hanno bisogno di ulteriori e diversi approfondimenti per capirle a fondo.

Lo scopo principale rimane comunque quello di dare il via ( se vi riuscirò) ad un piccolo dialogo e confronto con chi avrà la pazienza ma soprattutto la voglia di leggermi.

Ho delle grosse aspettative ? No . Cominciamo e poi vedremo dove andrà a finire questo piccolo esperimento .

Per il momento un simpatico e caloroso saluto a tutti . ciao a presto

Arte - Il Punzecchiatore

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8 marzo 2009 7 08 /03 /marzo /2009 15:00
La donna era in ospedale pestata dal marito. Le asportarono la milza. Sembrava potesse farcela. "Riuscirai a perdonargli?", le ha chiesto Lucia. "Se non gli perdono io, chi gli perdonerà?". Morì poco dopo, quasi all'improvviso. Rendo omaggio con questo intervento alle donne d'Africa, alle donne dei paesi dei Grandi Laghi, alle donne… Alle donne che risalivano dal lago alle sei del mattino, con la gerla già piena di sabbia bagnata, con cui riempire un fusto per una casa in costru-zione. Capaci di alzare la testa da sotto il peso e salutare con un largo sorriso. I primi spiccioli della giornata. Poi via, per i campi lontani dalla città, scalze, la gerla con la zappa sulle spalle. E magari anche l'ultimo nato, da deporre all'ombra, mentre si chinano sotto il sole a coltivare. Rendo omaggio alle donne al lavoro nei campi, spazio di libertà e creati-vità ove far crescere e moltiplicare la vita: che raccolgono e sbucciano la manioca, ne riempiono la cesta e tornano insieme liete camminando per chilometri sotto il sole delle due. E poi il fuoco da accendere, il cibo da preparare per tutti, il profumo che inonda l'aia e tutti che attendono da loro il cibo. E vederli mangiare tutti con gioia e orgoglio. E finalmente sedersi a mangiare, magari in cucina. Rendo omaggio alla loro intelligenza volta a proteggere la vita, al loro provvedere ad ogni cosa. Alle donne al mercato, finalmente sedute, che vendono il sovrappiù per procurare un poco di pesce, di sale, un vestito ai figli e magari anche qualcosa di bello per loro. Basta cosi poco perché facciano festa. Rendo omaggio alla loro bellezza luminosa, regale, ignorata, che la fatica spegne presto, ma solo in apparenza. Rendo omaggio a queste donne, che trovano il tempo per prendere il quader-no e andare a imparare a scrivere, e capire così che non è vero che sono meno intelligenti…; alla festa di leggere le prime parole, il libro del canti, la lettura in chiesa. Rendo omaggio a queste donne regine ad ogni maternità, che sanno chiamare Desiré (Desiderato) anche il nono figlio e che ricorrono ai metodi delle "nascite desiderabili" piuttosto per averli, i figli. Rendo omaggio alle donne morte nel dare la vita, con semplicità, come in un'avventura di cui sapevano da sempre il prezzo. Rendo omaggio a queste donne per le umiliazioni nascoste, i tradimenti subiti, le speranze deluse, la capacità di stare per amore dei figli. Per le volte che qualcuno ha detto loro che erano inferiori, serve, incapaci, per tutte le decisioni subite senza essere interpellate. Rendo omaggio a loro, soprattutto per questi lunghi anni di guerra, a loro che portano il peso dell'impresa quasi impossibile di nutrire la famiglia. Al coraggio delle loro riunioni clandestine in città, non in nome di chis-sà quali alternative politiche, ma dei loro figli e dei loro mariti resi merce di scarto dall'arruolamento forzato, dalla mancanza quotidiana di cibo. A loro che hanno per mesi rifiutato di mandarli a scuola. A loro che hanno marciato con il seno scoperto per dire l'inutilità del loro dare la vita, di fronte ai continui massacri. A loro che si sono vestite a lutto, che hanno scioperato da ogni attività, che vendono le merci in casa per non pagare al mercato la tassa dello "sforzo di guerra", la guerra contro il loro popolo. Rendo omaggio ai loro piedi che fanno chilometri e chilometri per trovare da qualche parte del cibo che costa meno, che accettano l'umiliazione di varcare la frontiera a comprare, tassato, un cibo prodotto nel loro paese, purché i figli mangino. Rendo omaggio alle loro mani callose che conoscono fin da piccole il lavo-ro, che sanno condividere con la vicina il niente che hanno. Rendo omaggio al loro grembo offeso da una guerra fatta contro di loro per uccidere il futuro di un popolo. Rendo omaggio alle donne spesso sciente-mente infettate di HIV come tecnica di guerra. Rendo omaggio alle ragazze umiliate alla stessa maniera mentre andavano all'acqua o al campo e di colpo diventate solo buone per la strada. A queste donne usate e umiliate. A quelle che hanno preferito morire atrocemente pur di non essere violate. Rendo omaggio alla loro capacità di danzare, malgrado tutto, alla nascita del figlio della vicina o negli incontri liturgici, ultimi spazi di liber-tà rimasti. Alla loro capacità di ridere mai del tutto spenta. Rendo omag-gio alla loro fede nel Dio quotidiano che lotta con loro e mediante loro per proteggere la vita, armata debole e enorme della vita contro gli eser-citi di morte. Rendo omaggio a Colui che le ha inventate per dire oggi che la vita si guadagna, si difende, si protegge con la vita. A questa eucaristia conti-nuamente da esse celebrata nella fatica di una vita data. Le loro storie, chi mai le racconterà? Ma da qualche parte, un libro è scritto, che cono-sce ogni loro passo. Non sono tutte sante. Ma conoscono che l'amore è fatica, I'amore fa male. Un messaggio, una scelta concreta? Accettare che l'amore ci faccia male, consumi il nostro tempo, la nostra vita, le nostre forze, la nostra pace. Accettare di essere tribolati per amore. Il resto sono parole, sentimentalismi, reality…"
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8 marzo 2009 7 08 /03 /marzo /2009 14:49
Monsignor Fisichella, lezione in stato d’assedio
- sab 7 marzo
Civiltà )( Barbarie di Andrea Tornielli
Tratto da Il Giornale del 7 marzo 2009

Il caso Sapienza non si è ripetuto e un’aula blindatissima nello storico Palazzo del Bo, sede del rettorato dell’università di Padova, il vescovo Rino Fischella ha potuto tenere la sua lectio magistralis su «Etica e ricerca scientifica», nell’ambito del convegno promosso dalla fondazione «Marina Minnaia» che da anni aiuta i pazienti in attesa di trapianto di fegato e i loro familiari.

Solo una cinquantina gli studenti contestatori, tenuti ben distanti dall’aula, dopo che l’intera area era stata transennata e circondata da uno stuolo di agenti in tenuta antisommossa. La presenza del vescovo, presidente della Pontificia accademia per la vita, invitato dalle autorità accademiche, era stata contestata nei giorni scorsi dai no global, dal movimento studentesco «l’Onda» e da alcuni docenti di sinistra, che avevano protestato per la mancanza di contraddittorio, definendo «politica» l’iniziativa che cade a poche settimane dalle elezioni universitarie. Quando il monsignore ha però fatto sapere che avrebbe ascoltato volentieri un intervento opposto al suo, i contestatori hanno detto che non avrebbero partecipato.

Così, ieri pomeriggio, a una platea selezionata e controllata, Fisichella ha potuto tenere il suo discorso, affiancato dal vicepresidente della Camera Maurizio Lupi e preceduto da ben otto interventi di saluto: vista la polemica montante e il rischio che a Padova si ripetesse quanto avvenuto nel gennaio 2008 all’Università La Sapienza di Roma con la mancata partecipazione di Benedetto XVI, sono intervenuti in favore della libertà di espressione anche il presidente della Regione Giancarlo Galan e il sindaco Flavio Zanonato.

All’inizio della lectio, Fisichella ha abbandonato il testo scritto e si è detto dispiaciuto per «il disagio arrecato alla città»: «Mi sono chiesto se fosse giusto creare una situazione di conflitto, ma non essere presente sarebbe stato peggio». Poi ha dato una lezione di laicità ai suoi interlocutori più critici: «Mi domando come si fa a giudicare il contenuto di un intervento prima che questo sia stato fatto. Le critiche sono legittime, ma dopo aver ascoltato». Il vescovo ha quindi aggiunto: «Non è detto che un sacerdote non possa pensare laicamente. Io nell’università ci abito, e anche se porto il colletto uso la ragione».

Fisichella ha smentito l’idea che la Chiesa sia contro il progresso scientifico: «Siamo stati nel passato, lo siamo tuttora e lo saremo nel futuro fautori e propugnatori della scienza». Sui trapianti, ha chiesto attenzione nell’accertamento della morte del paziente perché «in un ambito come questo non può esserci il minimo sospetto di arbitrio e dove la certezza ancora non fosse raggiunta deve prevalere il principio di precauzione». Infine, con accenno implicito al dibattito sul testamento biologico, ha spiegato che «invocare il principio di autodeterminazione non può essere esteso in modo assoluto» ma questo deve per la Chiesa «restare limitato al diritto di non vedersi imporre terapie sproporzionate e coercitive».
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7 marzo 2009 6 07 /03 /marzo /2009 23:44
Una vergognosa censura sul film Katyn
- sab 7 mar
di Domenico Bonvegna

Venerdì prossimo al cinema Palestrina di Milano sarà proiettato il film Katyn del regista polacco Andrzej Wajda.

"Sono in molti ad avere interesse a che il mio film non sia proiettato, ad acquistarne i diritti per non farlo vedere", afferma Wajda intervistato dal settimanale Tempi. Viene mostrato solo in circuiti ristretti, nei cinema d'essai o in rassegne per un pubblico selezionato. Così si fa in modo che non incida, che non abbia un vero rilievo nella mentalità comune". Infatti in Italia dopo lunghe peripezie, è uscito qualche settimana fa soltanto in 60 copie, giusto per pochi intimi.

Ma perché
- si domanda Tempi - in Europa dove circola liberamente qualsiasi film spazzatura cala la mannaia del politicamente corretto su uno dei più grandi autori viventi. Far conoscere la scomoda verità sul massacro dei 22 mila ufficiali polacchi perpetrato dai sovietici durante la seconda guerra mondiale dà ancora fastidio, in particolare nella Russia, dove ancora oggi Stalin è amato, nonostante abbia ucciso milioni di persone, molti ritengono che l'abbia fatto per il bene del suo paese.

Il massacro degli ufficiali polacchi a Katyn, invece, è un crimine senza giustificazioni, - afferma Wajda - che ha infranto tutte le convenzioni di guerra, e quindi qualcuno non vuole che venga ricordato. Mentre i governanti tedeschi hanno riconosciuto i crimini del nazismo, in Russia ancora non si è detta la verità su questo crimine così odioso.

Poi i sovietici, addossato la colpa dell'eccidio all'esercito nazista, datandolo nel pieno dell'avanzata della Wehrmacht verso Mosca (agosto 1941) e sostenendo che i documenti posteriori alla primavera del 1940 sono stati asportati dai tedeschi. Una versione che anche le potenze occidentali avallano, nel clima di distensione con l'alleato russo che caratterizza l'immediato dopoguerra. Ma come scriverà Joseph Mackiewicz, ex giornalista e membro del movimento clandestino polacco, recatosi a Katyn al seguito della Croce Rossa, «dato che ogni cosa era imbevuta e incollata con un liquido cadaverico ributtante e appiccicoso, era impossibile sbottonare tasche o togliere stivali ai morti. Fu necessario tagliarli con il coltello per poter trovare i documenti personali… Nessuna tecnica avrebbe permesso di frugare in quelle tasche, di estrarne degli oggetti, di ricollocarvene degli altri, e poi di riabbottonare le uniformi e riammucchiare i cadaveri, uno strato sull'altro…».

Per i polacchi, invece, c'è l'ordine di tacere e di dimenticare, almeno per i successivi 45 anni: si tratta infatti di una strage pianificata di cui tutti sanno ma sulla quale, sotto il tallone del regime comunista, è fatto divieto parlare, col rischio del carcere.

"Un film su Katyn fino al 1989 sarebbe stato impossibile, perché secondo la versione ufficiale imposta dai sovietici il massacro di ventiduemila ufficiali dell'esercito polacco compiuto nel 1940 nei boschi di Katyn era stato opera dei tedeschi. In realtà in Polonia tutti sapevano che i colpevoli erano i russi, e nessuno era disposto a fare un film intriso di menzogna; così Katyn nella nostra storia rimaneva una ferita aperta. Perché allora non lo abbiamo fatto subito dopo il 1989? Perché sulla vicenda c'era stato come un blocco: mentre tutti gli altri episodi drammatici della Seconda guerra mondiale avevano trovato qualcuno che ne facesse materia di qualche racconto, su Katyn non c'era nulla. Così, realizzare una sceneggiatura è stato un lavoro lungo e difficile. Io ho continuato a leggere tutta la documentazione disponibile, soprattuto i diari delle donne che, come mia madre, avevano perso il marito nella strage. Oggi tutto quel che si vede nel film è rigorosamente basato sui documenti che io ho letto nel corso di anni di ricerche". (Roberto Persico e Annalia Guglielmi, Il caso Wajda. Maestro censurato, 26 febbraio Tempi).

Katyn dura 118 minuti per realizzarlo Wajda ha attinto principalmente da diari, lettere e confessioni, analizzando anche i documenti ufficiali conservati negli archivi polacchi, statunitensi e inglesi - rappresentano due ore scarse di cinema trattenuto, rigoroso, potente, "magistrale", chiuso dall'Agnus Dei del grande Krzysztof Penderecki (su un minuto di schermo nero), che vede impegnati giovani attori emergenti del cinema polacco mentre nel cast tecnico spicca il nome di Pawel Edelman, già direttore della fotografia de Il Pianista (Le Pianiste, 2002, Roman Polanski).

Ecco ora si spera che dopo decenni di silenzi e di censure sui crimini commessi in nome del socialcomunismo anche il cinema cominci a raccontare questa storia. Dunque un 2009 che segna un buon inizio per la Storia sul grande schermo, almeno per quella rimasta (o messa forzatamente) "fuori campo"per decenni.

Rozzano MI, 3 marzo 2009
S. Cunegonda Regina
Domenico Bonvegna
domenicobonvegna[chiocciola]alice. it

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7 marzo 2009 6 07 /03 /marzo /2009 23:32

Avvenire 3 marzo 2009

Il direttore risponde Eluana: ciascuno è dinanzi alla verità di Dio

Mi dica la verità, direttore: da come distribuisce in pagina le notizie di questi giorni si capisce che lei non crede molto all’indagine giudiziaria in corso a Udine, che coinvolge i medici e gli infermieri che hanno portato a morte Eluana, o mi sbaglio?
 Lettera firmata

Non si sbaglia. Ritengo questa indagine importante almeno nella misura in cui altri atti, secondo me dovuti, in precedenza non sono stati neppure avviati. Ma non mi aspetto niente di più.
  Diciamolo, è un pro-forma: qualcosa che a questo punto non si può evitare, ma che porterà a nulla, e questo – come s’usa dire – «a prescindere». Immagini lei la scena. Questi signori – medici e infermieri – che sfilano uno dopo l’altro attraverso le porte della procura, che ad un certo punto si siedono dinanzi a chi li interroga, che rispondono come si usa fare in questi casi. Ma che, arrivati al dunque, possono all’incirca obiettare con questo ragionamento: «Signor pm, ho fatto quello che voi avete disposto. Non solo, ho fatto quello che voi avete garantito con tanta perizia, preservandolo da qualunque incursione e qualunque intoppo.
  Cosa vuole ora da me?». Sguardo imbarazzato da entrambe le parti, e via. Sotto un altro. La conclusione è già stata anticipata dal cronista che dall’inizio della vicenda funge da
porta parola «occulto»: infatti ha potuto bruciare sui tempi la concorrenza, annunciando l’apertura dell’inchiesta con un giorno di anticipo – lui poteva – ma premurandosi di spargere tranquillità e rassicurazioni: «Forse si tratta di un fascicolo che si apre velocemente e altrettanto velocemente si chiuderà. Una sorta di atto dovuto». Infatti, all’uscita dalla procura questi convocati appaiono tutt’altro che allarmati: anziché giustificarsi, attaccano, senza curarsi troppo dei particolari. Non importa se per ostentare sicurezza schizzano melma sul mondo, suore comprese. D’altra parte, di che cosa dovrebbero preoccuparsi? Sanno già di non rischiare l’incriminazione, se no i giudici dovrebbero per coerenza logica e formale incriminare anzitutto se stessi. Non facciamoci dunque distrarre dai diversivi. Ma concentriamoci piuttosto sull’iter della legge sulla fine della vita, che è in allestimento. È l’unica cosa che oggi si può fare per dare moralmente ragione del sacrificio di Eluana. Questo però non significa che, a commento della fatidica inchiesta, si possa dire ciò che incautamente ha affermato per esempio il ministro Bondi: «È tutto poco civile e per niente cristiano».
  Domanda: perché, signor ministro,
l’inchiesta ora aperta sarebbe poco cristiana? Poteva dire che è sciocca, inutile, dispendiosa, ma perché scomodare un aggettivo tanto impegnativo, da maneggiare sempre con cura? E che cosa c’è, secondo lei, di veramente cristiano in tutta questa storia? La prego, ce lo dica. E precisi, se può, in base a quale catechismo lei ritiene di poter sentenziare questo. Viviamo, ne converrà, tempi strani. Tutti che pontificano. Il senatore Marino ritiene che, essendo stato trent’anni fa uno scout provetto, ciò che oggi sostiene e fa, tra lo sbigottimento pressoché generale, sia per forza di cose un’espressione di cattolicesimo doc. Non ci si accontenta di avanzare le proprie tesi, di sostenerle con impegno e talora forzando magari la logica, no: si deve puntualmente auto­attribuirsi il timbro canonicale. E siccome l’incompetenza è spesso madre dell’arroganza, ecco che lo si fa anche con un tono di protervia degno di miglior causa. Di grazia, perché mai? In nome di che cosa?
  Di qualche frequentazione o di qualche furtiva pacca sulle spalle?
  Il mio parlare – ben inteso – vale per uno; una cosa tuttavia vorrei dirla tra fratelli di fede (seppure, credendo che il nostro sia il Dio vero, trattasi di discorso che in un modo o nell’altro tocca tutti).
  Eluana era in vita e oggi, in seguito a quello che le è stato fatto, non lo è più. La sua forma di vita era la stessa per la quale 2.500 famiglie circa si stanno prodigando notte e giorno attorno al letto di un loro congiunto in stato vegetativo persistente. Tutti dementi? Tutti poveri illusi? Tutti catturati da un simulacro che nulla ha a che fare con la vita? Non bestemmiamo. E almeno non offendiamoli. Lo stesso papà Beppino ha detto e fatto al
momento della morte di Eluana ciò che ogni papà compie al congedo estremo di un figlio. Eluana c’era, e oggi non c’è più. Ebbene, non amando le polemiche ad oltranza, si può anche rinunciare alla precisione lessicale, e controllando il vocabolario si può anche dire che Eluana è morta di sentenza anziché uccisa, ma scrivere uccisa non è – onorevole Bondi – inappropriato.
  Sarà magari scomodo, o inopportuno, o sconveniente, di sicuro è politicamente scorrettissimo, ma inappropriato proprio no. E nel profondo inconfessabile del cuore non c’è nessuno, di questo sono certo, che non sia stato almeno per un istante raggiunto dal dubbio radicale che queste parole includono. Capisco che perfino monaci famosi possano mettere la loro scienza spirituale a servizio delle vostre sicurezze, ma neppure loro taceranno a se stessi fino in fondo la verità. Qui peraltro non stiamo mettendo in discussione le intenzioni segrete e gravide di mistero delle persone, sappiamo di dover sempre distinguere l’atto da chi lo compie – tanto più quando è un atto affollato nel concorso delle responsabilità – e nessuno è autorizzato a scrutare nelle coscienze, tranne il Padreterno. Ma, per quanto parcellizzata, la
responsabilità non viene mai nullificata. Ci rincorre sempre.
  Dunque, non forzando il mistero delle coscienze, sappiamo di «comandamenti» che sono iscritti nella natura dell’uomo. Diceva il professor Melloni, mai tenero nelle sue sentenze sull’agire ecclesiale, che nell’intera vicenda di Eluana è mancato l’annuncio del mistero cristiano. Non so che cosa intendesse dire. Ognuno naturalmente parla per sé. Per me – peccatore – posso dire però che non mi ha mai, neppure per un istante, abbandonato la certezza dei

 Novissimi:
morte, giudizio, inferno e paradiso. E che la coscienza di dovermi un giorno presentare dinanzi all’Altissimo mi ha continuamente tormentato. «Cosa ho fatto io per fermare il meccanismo di morte?».
  Terrorismo psicologico, questo?
  Non scherziamo, amici.
  Semplicemente non desidero imbrogliare me stesso. Né imbrogliare voi. Quel giudizio decide della mia pace quaggiù e del mio destino lassù. I conti in casa degli altri non li faccio. Ma non accetto che altri abusino della mia educazione e facciano i conti con troppa disinvoltura a spese mie e a spese delle persone più semplici.
  Onorevole Bondi, senatore Marino: voi che amate tanto la precisione, per cortesia, astenetevi dal distribuire qualifiche ‘cristiane’.
 
Abbiamo già i nostri profeti (cfr Luca 16,29). Grazie.

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7 marzo 2009 6 07 /03 /marzo /2009 23:09

Avvenire 3 marzo 2009

UDINE, IL SOVVERTIMENTO DELLA REALTÀ

 
 IL NICHILISMO IN ARMI NON RISPARMIA LE SUORE 


  MARINA CORRADI  

Da Repubblica, intervista a Maria Marion, una delle infermiere accanto a Eluana negli ultimi giorni. Il giornalista: «Qualcuno pensa che lei abbia concorso a un’eutanasia » . La Marion: « Un termine che rifiuto, anzi per me nei confronti di questa ragazza c’è stato un accanimento terapeutico » .
  Dunque le suore che per tanti anni hanno dato a Eluana nutrimento e acqua, che l’hanno lavata e mille e mille volte voltata nel letto a evitare il decubito, si sono accanite su quel corpo. Si sono accanite, anche, ad aiutare Eluana a liberarsi dalla saliva che le ostacolava il respiro. Per quindici anni a Lecco c’è stato un pervicace, cocciuto accanimento: a una malata assente hanno dato nientemeno che da bere, e mangiare. Le han liberato la gola dalle secrezioni, cosa del tutto normale in pazienti immobili e incoscienti. Da una intervista della stessa Marion al Corriere emerge che quando Eluana è arrivata a Udine, nessuno sapeva a che servissero quelle pile di bavaglini mandati da Lecco. E sì che una che fa l’infermiera da 35 anni certe cose dovrebbe averle viste. Stupore invece: a che serviranno mai i bavaglini? La saliva fa tossire Eluana, la tosse espelle il sondino. Quando Avvenire scrisse di quei colpi di tosse, alcuni scrissero: favole. E invece la verità delle ultime ore della Englaro dice di volontari colti di sorpresa dalla donna che stenta a respirare. Penosissima verità: Eluana ha passato i suoi ultimi giorni nell’abbandono di quelle mani che conosceva e la amavano, che sapevano mantenerne limpido il respiro. Quando la disidratazione ha fatto il suo lavoro – « Chiazze rosse sulla pelle, temperatura alta » – l’équipe è rimasta a osservare il precipitoso decorso di una morte « naturale » .
  Ma non basta ancora. Non è eutanasia, si afferma, quel tagliare acqua e cibo, ma è « accanimento » , invece, l’averlo per anni dispensato. Al partito della morte non basta di avere sepolto Eluana; l’obiettivo è più ambizioso, è il rovesciamento, la sovversione anzi, della realtà. Dare acqua e cibo e lavare un malato inerte, si chiama « accanimento » .
  Non è una questione linguistica. È importante, il nome che si dà alle cose. Hannah Arendt nella Banalità del m­le  spiega come il nazismo abbia evitato accuratamente di usare la parola « sterminio » circa la eliminazione degli ebrei. L’ordine era di parlare di « soluzione finale » . Suonava meglio, e qualcuno poteva fare finta anche di non aver capito. Le parole, sono importanti. Attribuire alle suore di Lecco un « accanimento terapeutico» – ma il padre, perché tanto a lungo ha lasciato loro la figlia? – è sovvertire la realtà di ciò che è stato. Dire che a Udine « non è stata eutanasia » è altrettanto mendace – se non per il fatto che eutanasia è soppressione del consenziente, e Eluana non ha mai espresso un positivo consenso alla sua morte.
  A Udine la morte è stata data attivamente, sopprimendo ciò che è vitale all’uomo. Giuliano Ferrara ha scritto che allora un’iniezione sarebbe stata un gesto più franco. Già, ma un’iniezione sarebbe stato aperto omicidio, e questo oltre a essere illegale avrebbe mostrato a tutti come la fine di Eluana « naturale » non fosse per niente. E invece « naturalmente » doveva morire: di fame e sete, naturalissima morte. Manca la perfezione dell’opera: convincerci che accanimento è stato quello delle mani di tre suore, per quindici anni, a lavare e vestire e carezzare. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Il darsi più totale e gratuito si vuol chiamare « accanimento terapeutico » ,in questa Italia a forza liberata. Ma perché il rivoltarsi contro chi ha solamente dato? Si direbbe che il pensiero unico nichilista non tollera il bene gratuito. Proprio non lo sopporta. Forse perché lo avverte, della sua ansia di nulla, radicalmente nemico.

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7 marzo 2009 6 07 /03 /marzo /2009 01:10
Aspettando l'enciclica sociale
Attualità - gio 5 mar

di Carlo Di Cicco
Tratto da L'Osservatore Romano del 4 marzo 2009

La crisi internazionale che in crescendo attanaglia uomini, donne e famiglie dei Paesi ricchi e poveri e semina sgomento, chiedendo a ciascuno una nuova lettura della storia, è una prova del nove anche per misurare lo spessore del magistero di Benedetto XVI.

Le luci crepuscolari che si sono addensate sull'occidente sono un contesto che favorisce una lettura serena, libera da pregiudizi ideologici, dell'azione del Pontefice che si va dispiegando sempre meglio facendo apparire frettolose, quando non fatue, le letture schematiche.

Il Papa ha un pensiero per uscire dalla crisi. Non nel senso di ricette economiche specifiche capaci di ripristinare l'ordinato flusso nel rapporto capitale e lavoro, finanze e bisogni di famiglie e imprese. Ma perché da questa crisi non si esce senza una speranza che sia più credibile di quella che viene solo dai mercati e dalle teorie economiche. Per farcela occorre ricuperare ragioni per vivere. La depressione economica si supera se si vince la depressione ideale e l'appassirsi della speranza.

È a questo crocevia tra il cuore e la capacità programmatica delle risorse che si pone la parola di Papa Ratzinger. Dove è un bene per tutti dialogare con le sue sollecitazioni intellettuali e religiose, e dove può apparire ragionevole e plausibile la saggezza cristiana che egli chiede di far entrare con rinnovata cittadinanza nella società degli uomini d'oggi. C'è attesa per l'annunciata enciclica sociale di Benedetto XVI. Ma è lo stesso Papa a non voler essere preso come un oracolo. Egli preferisce un ritorno alla ragione perché senza questo ritorno diventa difficile anche valutare e apprezzare la serietà della proposta cristiana.

Il messaggio per la Giornata mondiale della gioventù è un esempio concreto di quale spirito potrebbe animare la prossima enciclica. Tanto da pensare che per coglierne il senso in profondità potrebbe essere utile rileggere l'enciclica, Spe salvi, che mostra in maniera solare come il ragionare del Pontefice porti sempre alle ultime conseguenze ogni umana ricerca.

Benedetto XVI vorrebbe altrettanto che i grandi principi di amore, distintivi dell'essere cristiani, fossero portati alle conseguenze. Chiede di prendere sul serio il Vangelo. Rivitalizza con questa fonte il senso di appartenere alla Chiesa che definisce "la grande famiglia dei cristiani". I cristiani autentici non sono mai tristi nonostante le difficoltà e le prove perché essi sanno che Cristo è un vivente. I cristiani sono parte del "popolo della speranza" formato da profeti e santi di tutti i tempi che hanno seguito l'esempio di Abramo che si fidò di Dio contro ogni speranza.

L'intento del Papa è quello di trovare un modo convincente per incoraggiare l'attuale generazione a fidarsi di Dio. E a tenerlo presente in ogni scelta di vita personale e collettiva.

Non si nega autonomia alla politica, alla scienza, alla tecnica, all'economia e a ogni altra risorsa materiale quando si dice che da sole "non sono sufficienti per offrire la grande speranza a cui tutti aspiriamo". Il Papa ricorda semplicemente che da sole non bastano a risolvere ogni genere di problema. È il nostro cuore infatti a voler sapere un di più e, se questo manca, continuiamo a vivere nello scontento pure in mezzo all'abbondanza di benessere.

Benedetto XVI è un Papa giusto per un tempo di crisi perché sa confortare e indica un ragionevole percorso per uscirne fuori insieme anziché ciascuno per sé. Prima ancora che si delineassero i disastri bancari che hanno scoperchiato la voragine economica rischiosa per tutti, il Papa ha posto due grandi questioni: quella dell'amore e subito dopo quella della speranza, "centro della nostra vita di esseri umani e della nostra missione di cristiani, soprattutto nell'epoca contemporanea". Infine, l'affidare a un messaggio destinato ai giovani, la riflessione su così grandi questioni di comune interesse, rimane un segnale di metodo per quanti sono coinvolti nel compito di educare.

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7 marzo 2009 6 07 /03 /marzo /2009 00:43
Contributo per come anche leggere l'attuale crisi economica.  ciao Arte




L'attuale crisi è solo finanziaria? No! è soprattutto una crisi di valori!
- ven 6 mar

Gli Approfondimenti di Alessandro Pagano

Tanti, specie tra i giovani, chiedono spiegazioni su questa crisi economica.
Ci proveremo, e sulla scia del nostro Ministro dell'Economia Giulio Tremonti, premettiamo che questa è una crisi diversa dalle solite.

Una crisi che è determinata dall'ingordigia della Finanza internazionale che, da un certo momento in poi, ha ritenuto opportuno abbandonare la cosiddetta economia reale (quella che produce, per intenderci), semplicemente perché i guadagni non erano più adeguati alle aspettative. Da qui la ricerca di nuovi businnes spregiudicati e immorali.

Ma qual è stato il percorso che ci ha portati a questo disastro? Con parole semplici proveremo a spiegare le cose partendo da lontano…..

Nel dopoguerra i mercati crebbero grazie "all'economia da ricostruzione ". Interi Paesi dovendo ricostruire le loro economie consentirono, legittimamente, agli Enti che li finanziavano di lucrare rendimenti consistenti.

Erano gli anni in cui l'Occidente vedeva crescere il PIL in maniera entusiasmante e con queste crescite si sostennero anche i rendimenti della Finanza.

Finita la ricostruzione, siamo già agli anni '70/80 del XX° secolo, il Capitalismo fece ricorso alle logiche consumistiche. Il cosiddetto Consumismo fu, ed è tutt'oggi, quanto di più innaturale, gradasso e offensivo si potesse immaginare. E non solo nei confronti delle popolazioni più povere del pianeta, ma anche nei confronti degli stessi consumatori che non si accorgevano di quanto questo stile di vita li stesse impoverendo, sia umanamente che moralmente.

Noi tutti potremmo elencare centinaia di esempi di sprechi individuali e collettivi; sprechi che hanno "dopato"i consumi facendoli crescere in modo abnorme.

Ma alla fine del XX° secolo il Capitalismo d'assalto cambia di nuovo strategia.

Approfittando della caduta del muro di Berlino e della conseguente apertura di nuovi mercati, e favorita dalle nuove regole del commercio internazionale, l'America di Clinton spostò il baricentro economico verso l'Asia, basandosi su un patto semplice quanto scellerato: l'Asia avrebbe prodotto merci a basso costo e l'America li avrebbe comprati a debito.

Come dice il nostro lucidissimo Tremonti: "negli USA tutto veniva comprato con il debito "(mutui ipotecari concessi anche a non meritevoli e sproporzionato indebitamento con carte di credito). Quindi, non solo si sprecava ma addirittura si comprava a debito. Sull'esempio degli USA quasi tutto l'Occidente ha fatto la stessa cosa.

E così da un lato, i popoli in maniera drogata, tenevano alto il tenore della loro vita, dall'altro la Finanza internazionale macinava utili provenienti, non più da una sana economia reale, bensì derivanti da crediti fittizi o inesigibili. I Governi di tutto il mondo, di fronte a questo disastro annunciato, dovevano prendere due soluzioni:

1. Spiegare ai loro popoli che dovevano diminuire il tenore di vita e ricominciare a costruire la propria economia su elementari quanto fondamentali principi: la responsabilità, la laboriosità, il senso del dovere, il senso del sacrificio.

2. Affrontare la globalizzazione senza faciloneria e senza buonismo rispetto a quanti baravano; in altre parole, dovevano emarginare quanti traevano profitti dalle vergognose disuguaglianze dei sistemi sociali.

Purtroppo i Governi dell'Occidente non hanno avuto questo senso di Responsabilità e non hanno fatto nulla di tutto questo. Piuttosto che regolamentare la globalizzazione selvaggia hanno preferito non prendere decisioni e hanno consentito agli speculatori di fare ciò che volevano.

In tutto questo, a giudizio di tutto il mondo, l'Italia è il Paese messo meglio perché non ha abbandonato l'economia reale (il sistema manifatturiero per intenderci) e perché le famiglie, bene o male, hanno continuato a risparmiare. Non così si è comportato il nostro settore pubblico, vera palla al piede del sistema Italia, che invece, dagli anni '70 fino alla fine del secolo, è cresciuto fino a diventare il 3° debito pubblico del mondo. Un indebitamento pubblico che sconteranno purtroppo le generazioni future.

Come ha scritto il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti "prima la lotta era fra i popoli, adesso rischia di essere fra le generazioni "(Enrico Zanetti, Press, febbraio).

Debito Pubblico a parte dobbiamo però concludere che la soluzione c'è. La fornisce il solito Giulio Tremonti, ormai sempre più punto di riferimento fra i Grandi del mondo grazie alle sue intuizioni: "Il mondo deve immediatamente realizzare il LEGAL STANDARD ", che altro non è che un nuovo sistema economico, finanziario e quindi sociale fatto di legalità, correttezza ed etica e con regole internazionali che devono essere riscritte.

Alessandro Pagano


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3 marzo 2009 2 03 /03 /marzo /2009 22:47

La solitudine di Papa Ratzinger

di Luigi Accattoli [03 marzo 2009]  ( da Liberal)

Caro direttore, questa è la settimana giusta per interrogarci sul domani di Papa Benedetto, dal momento che egli ora sosta per una settimana dall'incessante attività pubblica essendo impegnato negli Esercizi della Quaresima. Il suo domani è sovraffollato: sta preparando il viaggio in Terra Santa, riscrive daccapo l'enciclica sulla dottrina sociale, è impegnatissimo nel recupero dei lefebvriani. Si tratta di tre imprese coraggiose che affronta in solitaria con l'audacia di un Papa solista.

Lo chiamo «solista»  in omaggio alla sua passione per la musica ma anche perché a un Papa non si addice la qualifica di «solitario». Egli è spesso a tavola da solo e passa lunghe ore nella riflessione e nello studio. Nel Vaticano di oggi non c'è più, a fare da cuscinetto tra il Papa e la Curia, quella particolare corte polacca e amicale che caratterizzò il Pontificato di Papa Wojtyla e in parte l'aiutò a non avvertire la solitudine delle Supreme Chiavi. Dal punto di vista della giornata papale si è tornati al menage sobrio dell'ammissione di pochi amici qualificati, come fu per Paolo VI e all'amore per la riservatezza orante e pensante di Pio XII. Ovviamente a Benedetto XVI non manca l'accompagnamento curiale ma bisogna dire che egli - pur disponendo della più lunga esperienza di Curia che un Papa abbia mai accumulato da cardinale: ben 23 anni - non fa molto affidamento sull'apporto dei suoi collaboratori. Alla bisogna li convoca, ma le questioni che avverte come decisive tende ad affrontarle in prima persona.
 
 Venendo al dunque  possiamo affermare con sufficiente sicurezza che egli è davvero solo, come sentimento e come realtà, di fronte a quelle tre sfide che dicevamo all'inizio - la missione in Terra Santa, l'enciclica e i lefebvriani - come già scelse di essere solo negli anni passati, quando si trovò ad affrontare la questione dell'Islam, il dramma dei preti pedofili e quello - recentissimo - della negazione della Shoah. Si direbbe che in quei tre casi la solitudine istituzionale e psicologica nella quale si trovò a operare gli abbia giovato e c'è da augurargli che lo stesso avvenga con le nuove questioni che l'attendono dietro l'angolo.
Sappiamo con certezza che nessuno dei suoi collaboratori aveva letto la lectio  di Regensburg - in cui poneva senza cautele diplomatiche la questione della violenza nell'Islam - prima del giorno in cui la pronunciò, che era il 12 settembre 2006. In analoga solitudine egli ha solennemente affermato il maggio e il luglio scorsi, essendo in visita negli USA e in Australia, che «provava vergogna» per la controtestimonianza dei preti pedofili. Da solo ha maturato in gennaio la decisione di cancellare la scomunica dei quattro vescovi lefebvriani, trovandosi a far fronte in solitudine alla tempesta esterna e interna che ne è seguita.

 Intrepidamente solo  è stato infine nella scelta di fissare il viaggio in Terra Santa per la metà di maggio, facendolo annunciare mentre non c'era (e non c'è ancora) il nuovo governo in Israele, con i territori palestinesi allo sbando e una situazione più di guerra che di pace nell'intero Medio Oriente. Nessuno dubita che fosse un animoso - o addirittura un fegatoso - Papa Wojtyla, eppure non si azzardò a visitare la Terra Santa finchè non ebbe - nel 2000 - il via libera da un governo Barak perfettamente padrone della situazione e da un Arafat che si stava avviando, così tutti credevamo, alla proclamazione dello Stato palestinese.

 Ma un'audacia ancora  più grande è da scorgere nel proposito di pubblicare quanto prima - in primavera o in estate - un'enciclica sociale: era pronta già l'estate scorsa, ma ora il Papa la sta riscrivendo per tenere conto della crisi economica che va montando nel mondo. Qui in verità Benedetto non è solo, anzi il progetto dell'enciclica non era neanche suo in partenza, ma gli era venuto dalle sollecitazioni del preconclave e gli era stato poi riproposto dagli uffici di Curia per onorare il quarantennale della  Populorum progressio  di Paolo VI (1967). Il Papa teologo ha preso passione all'enciclica che andava preparando proprio con il profilarsi della crisi dell'economia. Che si stesse interrogando da teologo su quella crisi lo fece sapere il 6 ottobre scorso, in apertura del Sinodo dei vescovi, quando (commentando il Salmo 118: «La tua parola è stabile come il cielo») contrappose alla "stabilità" divina l'incertezza delle fortune fondate sul denaro: «Lo vediamo adesso nel crollo delle grandi banche: questi soldi scompaiono, sono niente». È tornato sull'argomento giovedì scorso, conversando con i parroci di Roma e confidandosi sulla difficoltà in cui lo pone la messa a punto - nell'incertezza di tutte le cose - di un documento del magistero sociale. «Da molto tempo prepariamo un'enciclica su questi punti» ebbe a dire, confessando come sia «difficile» parlare di tale questione «con competenza» e insieme «con una grande consapevolezza etica».

 Il difficile sta nel  denunciare «con coraggio ma anche con concretezza» gli «errori fondamentali che sono adesso mostrati nel crollo delle grandi banche americane» e nell'indicare che cosa fare «in concreto» per «cambiare la situazione». Si tratta dunque nientemeno che di denunciare gli errori di un'economia fondata sulla «dominazione dell'egoismo» - altra sua espressione - e di indicare la strada per uscirne e di farlo oggi, mentre nessuno sa dove ci porterà la crisi e che mondo ne verrà! Mai il magistero sociale della Chiesa aveva corso un rischio così grande, di parlare in mezzo alla bufera. Lo corre un Papa che decide da solo e affronta grandi sfide senza retorica. Se si rimettesse ai consiglieri, lo dissuaderebbero dall'esporsi come il mese scorso provarono a trattenerlo dal viaggio in Terra Santa. Finora il suo metodo disarmato l'ha aiutato a segnare buoni punti su vari fronti. È il vantaggio del Papa solista che affronta spartiti inediti invitando i fedeli a pregare «perché non fugga davanti ai lupi», come ebbe a dire nella celebrazione di apertura del Pontificato.

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