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1 aprile 2010 4 01 /04 /aprile /2010 01:03

 

 

 

 

Più grande del pec

 

 Ci sarebbe da discutere a lungo, sulle vicende che hanno portato Benedetto XVI a scrivere la sua Lettera ai cattolici d’Irlanda. E si potrebbe farlo partendo dai fatti, da numeri e dati che - letti bene - dicono di una realtà molto meno imponente di quanto possa

 

sembrare dalla campagna feroce dei media. Oppure dalle contraddizioni di chi, sugli

 

stessi giornali, accusa - a ragione - certe nefandezze,ma poche pagine più in là giustifica

 

tutto e tutti, specie in materia di sesso. Si potrebbe, e forse aiuterebbe a capire meglio il

 

contesto di una Chiesa davvero sotto attacco, ben al di là dei suoi errori. Solo che il gesto

 

umile e coraggioso del Papa ha spostato tutto più in là. Verso il cuore della questione.

 

Chiaro, la ferita c’è. Ed è gravissima. Di quella specie che ha fatto dire parole di fuoco

 

a Cristo («Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe

 

meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina e fosse gettato negli abissi…») e

 

ai suoi vicari.

 

C’è la sporcizia, nella Chiesa. Lo disse chiaro e forte lo stesso Joseph Ratzinger nella Via

 

Crucis di cinque anni fa, poco prima di diventare Papa, e non ha smesso mai di ricordarlo

 

dopo, con realismo. C’è il peccato, anche grave. C’è il male e l’abisso di dolore che

 

il male si porta dietro. E c’è l’esigenza di fare tutto il possibile - pure con durezza - per arginare

 

quel male e riparare a quel dolore. Il Papa lo sta già facendo, e la sua Lettera lo ribadisce

 

con forza, quando chiede ai colpevoli di risponderne «davanti a Dio onnipotente,

 

come pure davanti a tribunali».

 

Ma proprio per questi motivi il vero cuore della questione, il focus dimenticato, sta altrove.

 

Accanto a tutti i limiti e dentro l’umanità ferita della Chiesa c’è o no qualcosa di

 

più grande del peccato? Di radicalmente più grande del peccato? C’è qualcosa che può

 

spaccare la misura inesorabile del nostro male? Qualcosa che, come scrive il Pontefice,

 

«ha il potere di perdonare persino il più grave dei peccati e di trarre il bene anche dal più

 

terribile dei mali»?

 

«Ecco dunque il punto: Dio si è commosso per il nostro niente», «Non solo: Dio si è commosso

 

per il nostro tradimento, per la nostra povertà rozza, dimentica e traditrice, per la nostra meschinità.

 

È una compassione, una pietà, una passione. Ha avuto pietà per me».

 

È questo che porta la Chiesa nel mondo, e non certo per merito, bravura o tantomeno

 

coerenza dei suoi: la commozione di Dio per la nostra meschinità. Qualcosa di più

 

grande dei nostri limiti. L’unica cosa infinitamente più grande dei nostri limiti. Se non si

 

parte da lì, non si capisce nulla. Impazzisce tutto, letteralmente.

 

È capitato - capita - anche a noi di schivare quella commozione, di sfuggirla. A volte è

 

nella Chiesa stessa che si riduce la fede a un’etica e la, moralità a un’impossibile rincorsa

 

solitaria alle leggi, quasi che aver bisogno di quell’abbraccio fosse una cosa di cui doversi

 

vergognare .Ma se si dimentica Cristo, se si fa fuori la misura totalmente diversa che Lui

 

introduce nel mondo ora, attraverso la Chiesa, non si hanno più i termini per capire e

 

giudicare la Chiesa stessa.

 

Allora diventa facile confondere l’attenzione per le vittime e il riguardo per la loro storia

 

con un silenzio connivente, e la prudenza verso i colpevoli veri o presunti – accusati,

 

magari, sulla base di voci affiorate dopo decenni – con la voglia di «insabbiare» (che

 

pure a volte, evidentemente, c’è stata). Diventa quasi inevitabile straparlare di celibato

 

senza sfiorare nemmeno il valore reale della verginità. E diventa impossibile capire perché

 

la Chiesa può essere dura e materna insieme, con i suoi sacerdoti che sbagliano. Può

 

punirli con severità e chiedere loro di scontare la pena e riparare al male (lo ha già fatto,

 

non da oggi; e lo farà, sempre),ma senza spezzare - se possibile - il filo di un legame, perché

 

è l’unica cosa che può redimerli. Può chiedere ai suoi figli «siate perfetti come è perfetto

 

il Padre vostro» non per domandare un’impossibile irreprensibilità, ma per

 

richiamare una tensione a vivere la stessa misericordia con cui ci abbraccia Dio («siate

 

misericordiosi come è misericordioso il Padre che è nei cieli»).

 

È proprio per questo che la Chiesa può educare. Che, in fondo, è la vera questione

 

messa in discussione da chi la sta accusando («vedete che sbagliano anche i preti, e di

 

brutto? Come facciamo ad affidargli i nostri bambini?»), come se il suo essere maestra

 

dipendesse tutto dalla coerenza dei suoi figli, e non da Lui. Da Cristo. Dalla Presenza

 

che – tra tutti gli errori e gli orrori commessi - rende possibile nel mondo un abbraccio

 

come quello del Figliol prodigo ritratto da Chagall . Benedetto XVI scrive: «Convertirsi a Cristo significa in fondo proprio questo: uscire dall’illusione dell’autosufficienza per scoprire e accettare la propria indigenza, esigenza del suo perdono».

 

Ecco, l’abbraccio di Cristo, dentro la nostra umanità ferita e indigente e al di là del male

 

che possiamo compiere. Se la Chiesa – con tutti i suoi limiti - non avesse questo da offrire

 

al mondo, persino alle vittime di quelle barbarie, allora sì che saremmo perduti.

 

Tutti. Perché il male ci sarebbe sempre .Ma sarebbe impossibile vincerlo.

 

TRACCE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Più grande del peccato

 

 

 

 

 

 

 

T Ci sarebbe da discutere a lungo, sulle vicende che hanno portato Benedetto XVI a scriverela sua Lettera ai cattolici d’Irlanda. E si potrebbe farlo partendo dai fatti, da numerie dati che - letti bene - dicono di una realtà molto meno imponente di quanto possa

 

sembrare dalla campagna feroce dei media. Oppure dalle contraddizioni di chi, sugli

 

stessi giornali, accusa - a ragione - certe nefandezze,ma poche pagine più in là giustifica

 

tutto e tutti, specie in materia di sesso. Si potrebbe, e forse aiuterebbe a capire meglio il

 

contesto di una Chiesa davvero sotto attacco, ben al di là dei suoi errori. Solo che il gesto

 

umile e coraggioso del Papa ha spostato tutto più in là. Verso il cuore della questione.

 

Chiaro, la ferita c’è. Ed è gravissima. Di quella specie che ha fatto dire parole di fuoco

 

a Cristo («Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe

 

meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina e fosse gettato negli abissi…») e

 

ai suoi vicari.

 

C’è la sporcizia, nella Chiesa. Lo disse chiaro e forte lo stesso Joseph Ratzinger nella Via

 

Crucis di cinque anni fa, poco prima di diventare Papa, e non ha smesso mai di ricordarlo

 

dopo, con realismo. C’è il peccato, anche grave. C’è il male e l’abisso di dolore che

 

il male si porta dietro. E c’è l’esigenza di fare tutto il possibile - pure con durezza - per arginare

 

quel male e riparare a quel dolore. Il Papa lo sta già facendo, e la sua Lettera lo ribadisce

 

con forza, quando chiede ai colpevoli di risponderne «davanti a Dio onnipotente,

 

come pure davanti a tribunali».

 

Ma proprio per questi motivi il vero cuore della questione, il focus dimenticato, sta altrove.

 

Accanto a tutti i limiti e dentro l’umanità ferita della Chiesa c’è o no qualcosa di

 

più grande del peccato? Di radicalmente più grande del peccato? C’è qualcosa che può

 

spaccare la misura inesorabile del nostro male? Qualcosa che, come scrive il Pontefice,

 

«ha il potere di perdonare persino il più grave dei peccati e di trarre il bene anche dal più

 

terribile dei mali»?

 

«Ecco dunque il punto: Dio si è commosso per il nostro niente», «Non solo: Dio si è commosso

 

per il nostro tradimento, per la nostra povertà rozza, dimentica e traditrice, per la nostra meschinità.

 

È una compassione, una pietà, una passione. Ha avuto pietà per me».

 

È questo che porta la Chiesa nel mondo, e non certo per merito, bravura o tantomeno

 

coerenza dei suoi: la commozione di Dio per la nostra meschinità. Qualcosa di più

 

grande dei nostri limiti. L’unica cosa infinitamente più grande dei nostri limiti. Se non si

 

parte da lì, non si capisce nulla. Impazzisce tutto, letteralmente.

 

È capitato - capita - anche a noi di schivare quella commozione, di sfuggirla. A volte è

 

nella Chiesa stessa che si riduce la fede a un’etica e la, moralità a un’impossibile rincorsa

 

solitaria alle leggi, quasi che aver bisogno di quell’abbraccio fosse una cosa di cui doversi

 

vergognare .Ma se si dimentica Cristo, se si fa fuori la misura totalmente diversa che Lui

 

introduce nel mondo ora, attraverso la Chiesa, non si hanno più i termini per capire e

 

giudicare la Chiesa stessa.

 

Allora diventa facile confondere l’attenzione per le vittime e il riguardo per la loro storia

 

con un silenzio connivente, e la prudenza verso i colpevoli veri o presunti – accusati,

 

magari, sulla base di voci affiorate dopo decenni – con la voglia di «insabbiare» (che

 

pure a volte, evidentemente, c’è stata). Diventa quasi inevitabile straparlare di celibato

 

senza sfiorare nemmeno il valore reale della verginità. E diventa impossibile capire perché

 

la Chiesa può essere dura e materna insieme, con i suoi sacerdoti che sbagliano. Può

 

punirli con severità e chiedere loro di scontare la pena e riparare al male (lo ha già fatto,

 

non da oggi; e lo farà, sempre),ma senza spezzare - se possibile - il filo di un legame, perché

 

è l’unica cosa che può redimerli. Può chiedere ai suoi figli «siate perfetti come è perfetto

 

il Padre vostro» non per domandare un’impossibile irreprensibilità, ma per

 

richiamare una tensione a vivere la stessa misericordia con cui ci abbraccia Dio («siate

 

misericordiosi come è misericordioso il Padre che è nei cieli»).

 

È proprio per questo che la Chiesa può educare. Che, in fondo, è la vera questione

 

messa in discussione da chi la sta accusando («vedete che sbagliano anche i preti, e di

 

brutto? Come facciamo ad affidargli i nostri bambini?»), come se il suo essere maestra

 

dipendesse tutto dalla coerenza dei suoi figli, e non da Lui. Da Cristo. Dalla Presenza

 

che – tra tutti gli errori e gli orrori commessi - rende possibile nel mondo un abbraccio

 

come quello del Figliol prodigo ritratto da Chagall . Benedetto XVI scrive: «Convertirsi a Cristo significa in fondo proprio questo: uscire dall’illusione dell’autosufficienza per scoprire e accettare la propria indigenza, esigenza del suo perdono».

 

Ecco, l’abbraccio di Cristo, dentro la nostra umanità ferita e indigente e al di là del male

 

che possiamo compiere. Se la Chiesa – con tutti i suoi limiti - non avesse questo da offrire

 

al mondo, persino alle vittime di quelle barbarie, allora sì che saremmo perduti.

 

Tutti. Perché il male ci sarebbe sempre .Ma sarebbe impossibile vincerlo.

 

TRACCE

 

 

 

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19 marzo 2010 5 19 /03 /marzo /2010 23:02
Quegli attacchi al Papa teleguidati

martedì 16 marzo 2010

 

Forse questa sarà la Quaresima più dura di Benedetto XVI. All’amara verifica di quanto detto in quella storica Via Crucis del 2005 (“Quanta sporcizia nella Chiesa!”) si aggiunge una disgustosa operazione di caccia cui partecipano da diverse angolazioni la stampa laica, i dissidenti tipo Küng e le lobby dei nuovi diritti. Questi sono giorni di piombo e furore nei mezzi di comunicazione e Pietro è di nuovo in mezzo alla tempesta.

 

Con una precisione da orologiaio, escono alla ribalta alcuni casi perfettamente calibrati come le bombe che inseguono il loro obiettivo. E in attesa della lettera ai cattolici d’Irlanda, a seguito delle terribili denunce del Dossier Ryan, la stampa tira fuori vecchie storie in Olanda, Germania e Austria, molte delle quali giudicate e archiviate venti o trenta anni fa. Materiale infiammabile per costruire una storia tanto sporca quanto falsa.

 

Si cerca di fissare nell’immaginario collettivo la figura di una Chiesa che non è più solo un corpo estraneo nella società postmoderna, ma una sorta di mostro la cui proposta morale e la cui disciplina interna portano i propri membri verso l’anormalità e gli abusi. Sì, questa è la Chiesa che ha educato l’Europa al riconoscimento della dignità umana, all’amore per il lavoro, alla letteratura e al canto, è quella che ha inventato gli ospedali e le università, quella che ha forgiato il diritto e ha limitato l'assolutismo... ma questo ora non importa. E con la stessa gioia con cui alcuni si danno da fare per rimuovere i suoi simboli dagli spazi pubblici, altri si stanno preparando a demolire la sua immagine.

 

Ho già sentito la domanda: ma è vero o no ciò che ci viene detto? Vediamo i dati. In Germania, per esempio, dei 210.000 casi di abusi sui minori denunciati dal 1995, 94 hanno a che fare con la Chiesa. Certo, 94 casi nelle parrocchie e nelle scuole sono un’enormità, sono una ferita nel corpo della Chiesa e sollevano gravissime domande. È anche vero che dai membri della Chiesa, specialmente da quelli che hanno il compito di educare, ci si aspetta sempre qualcosa di superiore alla media, perché a chi è stato dato molto è chiesto altrettanto. Ma diciamo anche molto chiariamente che la Chiesa non vive nello spazio, al di fuori della storia. È costituita da uomini deboli e peccatori, il suo corpo è assalito dalle correnti culturali del tempo e non mancano momenti in cui la coscienza di molti dei suoi membri è determinata più dal mondo che dalla viva tradizione che hanno ricevuto.

L'orrore di questi casi non può essere minimizzato, e per questo Benedetto XVI (fin da quando era Prefetto della Dottrina della Fede) ha messo in moto una formidabile opera di “risanamento” i cui frutti sono ancora misurabili. Ma quando la grande stampa fabbrica prime pagine utilizzando i 94 casi e tace miserabilmente sugli altri 200.000, siamo di fronte a una ripugnante operazione che deve essere denunciata. Le cifre di questa catastrofe ci parlano di una malattia morale del nostro tempo e chiedono di guardare non al celibato dei preti cattolici, ma alla rivoluzione sessuale del ‘68, al relativismo e alla perdita di senso della vita che affligge le società occidentali.

 

Il sociologo Massimo Introvigne ha pubblicato sul tema un eccellente articolo in cui spiega che l’uragano mediatico di queste settimane risponde a quello che è definito come un fenomeno di “panico morale”, perfettamente teleguidato a distanza da alcuni centri di potere. Secondo la sua spiegazione, si tratta di una “ipercostruzione sociale”, destinata a creare una figura predefinita (il mostro di cui parlavamo all’inizio) con materiali frammentari e sparsi nel tempo.

 

Esiste certamente un problema reale: sacerdoti (sempre troppi) che hanno compiuto il nefando crimine di abuso sui minori. Ma le dimensioni, i tempi e il contesto storico sono sistematicamente alterati o taciuti. Nessuno mette questi numeri della vergogna ecclesiale in rapporto con la totalità brutale del problema; nessuno dice, per esempio, che negli Stati Uniti erano cinque volte più alti i casi che vedevano imputati pastori di comunità protestanti, o che nello stesso periodo in cui in quel paese erano stati condannati cento sacerdoti cattolici, sono stati cinquemila i professori di ginnastica e gli allenatori sportivi che hanno subito la stessa condanna. E nessuno ha chiesto spiegazioni alla Federazione di basket!

 

Infine, il dato più agghiacciante: l’area in cui vi sono maggiori abusi sessuali sui minori è la famiglia (qui accadono i due terzi di tutti i casi registrati). Quindi, cosa c’entra il celibato in tutto questo? Lasciamo da parte le vecchie ossessioni di Küng, la sua crociata arcaica per svuotare la Chiesa dei suoi nervi e della sua sostanza. Ma dai giornali laici, così puntigliosi e scientifici, ci si aspetterebbe un po’ più di obiettività.

 

La settimana scorsa il “panico morale” teleguidato ha colpito per bene il suo obiettivo. La caccia si è concentrata su una preda più grande, lo stesso Benedetto XVI, il Papa che ha aperto le finestre e ha stabilito una serie di regole per la massima trasparenza, la cooperazione con le autorità e, soprattutto, la cura delle vittime. È stato il Papa che negli Stati Uniti e in Australia si è trovato faccia a faccia con coloro che avevano subito questa terribile esperienza, per chieder loro perdono a nome di una Chiesa di cui loro sono membri feriti, e meritano per questo una preferenza totale. 

Le insinuazioni su Papa Ratzinger in questa materia meriterebbero semplicemente disprezzo se non fosse per il fatto che indicano qualcosa di importante su questo momento storico. C’è un potere culturale, politico e mediatico che ha messo Pietro nel mirino, senza vergogna e senza imbarazzo. Certamente non è la prima volta che succede, e conviene ricordarlo. Ma il furore e le armi questa volta sono, se non altro, più insidiose di prima.

 

Si può immaginare la coscienza lucida con cui Benedetto XVI contempla questa ondata, e il dolore conseguente che lo accompagna in questo momento drammatico in cui egli stesso è diventato, dentro la Chiesa, il punto fisico che attrae un odio irrazionale, ma non sconosciuto, perché Gesù ce ne ha già parlato nel Vangelo. Non so se con una certa ironia, nell’udienza di mercoledì scorso ci ha fatto vedere come vuole esercitare il proprio ministero in questo momento di paura, reazioni viscerali e vacillamenti vari. 

Lo ha fatto “specchiandosi” in uno dei suoi maestri più amati, San Bonaventura: “Per San Bonaventura governare non era semplicemente un fare, ma era soprattutto pensare e pregare [...].Il suo contatto intimo con Cristo ha accompagnato sempre il suo lavoro di Ministro Generale e perciò ha composto una serie di scritti teologico-mistici, che esprimono l’animo del suo governo e manifestano l’intenzione di [...] [governare] non solo mediante comandi e strutture, ma guidando e illuminando le anime, orientando a Cristo”. In mezzo alla tempesta, questa è la decisione umile e ferma di Benedetto XVI.

 

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5 marzo 2010 5 05 /03 /marzo /2010 01:02

Mi piacerebbe sapere quali sono i valori non negoziabili e quelli negoziabili . Io per non sbagliarmi sono andato a rileggermi i 10 Comandamenti e quelli per me sono legge , dal primo all'ultimo . E non ho trovato da nessuna parte scritto questo è più importante di quello o di quell'altro.
Cari amici  rileggiamoli per bene e mettiamoli anche in pratica .
Ciao dal vostro Punzecchiatore




Io sono il Signore Dio tuo:
1. Non avrai altro Dio fuori di me.
2. Non nominare il nome di Dio invano.
3. Ricordati di santificare le feste *.
4. Onora il padre e la madre.
5. Non uccidere.
6. Non commettere atti impuri.
7. Non rubare.
8. Non dire falsa testimonianza.
9. Non desiderare la donna d'altri.
10. Non desiderare la roba d'altri

dieci-comandamenti.jpg

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19 febbraio 2010 5 19 /02 /febbraio /2010 00:43
Non c'è bisogno di nessun commento a queste chiarissime ed importanti parole dette da  Benedetto XVI.   E poi vengono (guardacaso) in un momento molto particolare per il nostro paese . Ognuno ne tragga gli insegnamenti che vuole , ma per me sono inequivocabili. 
ciao dal vostro punzecchiatore.


 «Rubare e mentire non è umano»
Richiamo del Papa: Rubare o mentire non può essere giustificato come una debolezza umana: è quanto ha detto papa Benedetto XVI, parlando oggi a braccio davanti al clero di Roma.  «Non si dica più - ha affermato il Papa, che ha parlato a braccio - ha mentito, è umano; ha rubato, è umano». «Questo - ha aggiunto - non è il vero essere umani. Essere umani vuol dire esseri generosi, volere la giustizia, la prudenza, la saggezza essere a immagine di Dio», perchè «il peccato non è mai solidarietà è sempre assenza di solidarietà».

Il sacerdote, ha spiegato ancora papa Ratzinger, «deve essere uomo, vivere la vera umanità, il vero umanesimo, avere formazione delle virtù umane, sviluppare la sue intelligenza, i suoi affetti. Sappiamo che l'essere umano è ferito dal peccato, ma con l'aiuto di Cristo esce da questo oscuramento della propria natura».

Proseguendo ha parlato dell'obbedienza «è una parola che non piace nel nostro tempo», perchè al giorno d'oggi la si assimila ad «alienazione», «atteggiamento servile», sottomissione alla «volontà di un altro», mentre «l'autodeterminazione sarebbe la vera esistenza umana».

Tuttavia, ha aggiunto, la «libertà» e la «obbedienza» sono «due cose che vanno insieme», perchè «l'obbedienza a Dio, cioè la conformità alla verità del nostro essere, è la vera libertà, è la divinizzazione».

Il pontefice ha tenuto questa mattina una Lectio divina al clero di Roma su ad alcuni passi della Lettera agli Ebrei.
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28 dicembre 2009 1 28 /12 /dicembre /2009 00:41
Uomini grazie a un Bambino
 

 

È solo per la carità sconfinata di Dio nei nostri confronti che noi possiamo sperare di diventare capaci di «tessere reti di carità», come dice il Papa nella Caritas in veritate. E la carità ha un orizzonte di 360 gradi. Si estende dalla doverosa condivisione con coloro che sono nell’indigenza e nella miseria (il cui numero, in questo tempo di crisi, è in continua, preoccupante crescita) alla difesa del primato irrinunciabile degli uomini del lavoro dignitosamente concepito, fino alla passione per l’edificazione del bene comune nell’impegno politico diretto. Instancabile nel far prevalere, sempre e comunque, le ragioni della philìa (amicizia civica) su quelle del conflitto.

Natale è la festa dell’innocenza e perciò della pace. Il Dio nato a Betlemme è la pace stessa. Ce lo insegnano i più piccoli (non solo di età), i malati, i sofferenti con il loro abbandono fiducioso che si aspetta tutto non da ciò che possiedono, ma da ciò che ricevono. La testimonianza di Gesù, l’Innocente per eccellenza, imitata dai martiri, è offerta totale di sé («svuotò se stesso», dice Paolo) a noi uomini affinché vivendo relazioni buone favoriamo in tutti la pratica del bene.

L’Onnipotente che si è fatto Bambino ha la forza di dare pienezza all’umano: «La Sua natività purificò la nostra» - scrive San Bernardo - «la Sua vita ammaestrò la nostra, La Sua morte distrusse la morte nostra». Dalla traboccante gratitudine per questo dono sgorga l’audacia della nostra speranza. Da qui attingiamo l’energia per stare dentro ogni rapporto senza accettarne la scontatezza, senza rendere il pregiudizio cronico. Egli ci apre alla possibilità di pacificare anche i rapporti più conflittuali. Fa fiorire l’affezione verso noi stessi e verso tutti i nostri fratelli uomini. Nel Natale Gesù ci visita per donarci la vita di Dio!

Quando la sera torniamo a casa stanchi e appesantiti dalle preoccupazioni della giornata, spesso ci corrono incontro a braccia aperte i nostri bimbi. Così fa Dio. Per rendersi familiare ad ogni uomo, è divenuto bambino. I Padri della Chiesa arrivavano a dire: “Dio si è abbreviato”, taluni usavano addirittura un verbo in cui l'“abbreviarsi” è legato all'“impoverirsi”. Dio, l’Onnipotente, si è impoverito, si è abbassato, per imparare la nostra lingua di creature.

E forse oggi, più che mai, il mondo avverte la pungente nostalgia di Dio. «Stanco e disfatto è il mondo -  scrive Chesterton - ma del mondo il desiderio è questo». L’annuncio del Natale incontra il gemito di questo desiderio.

Sempre nella storia dell’Occidente i momenti di passaggio, e quindi di maggior travaglio, hanno fatto emergere le questioni decisive. Osserva Sant’Ireneo: «Il Verbo di Dio pose la sua abitazione tra gli uomini per abituare l’uomo a comprendere Dio». È la ragione per cui - insiste Ireneo - «Dio manifesta se stesso negli uomini». Non c’è alcun antagonismo tra Dio e l’uomo se questi resta nell’amore di Lui. In questo rapporto col Dio che si è reso familiare ognuno di noi e tutta l’umanità può solo progredire.

Il Bambino Gesù risveglia le nostre domande più vere, quelle che normalmente lasciamo seppellite sotto la distrazione, e accende in noi la speranza. La sua umiltà ci conquista e diventa richiesta di semplicità. Chi di noi non sente, nella propria vita, il bisogno di una grande semplificazione? In tutti c’è l’urgenza di tornare all’essenziale, a ciò che conta davvero e ci fa respirare, liberandoci sia dall’affanno di un consumismo malaugurante (si dovrebbe usare la parola osceno, che ha proprio questo significato), sia da stili affettivi complicati, ambigui, spesso menzogneri, che fanno soffrire l’altro, non fanno vivere un amore che libera, ma spingono verso un amore che lega.

Dio, in Gesù Bambino, non solo “si è abbreviato”, fino a rendersi “visibile agli occhi, palpabile alle mani, portabile sulle spalle”, ma ha dato la vita per noi per coinvolgerci nella dinamica della Sua donazione.

 

 

 

   Angelo Scola
 
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16 ottobre 2009 5 16 /10 /ottobre /2009 22:51
Per accettare i propri limiti ci vuole la coscienza dei miei malati

Come faccio ad accettare i miei limiti? È la domanda che per anni mi ha tormentato, e che mi capita di ascoltare spesso da coloro che incontro quotidianamente: giovani, adulti, anziani, sposati, consacrati, scapoli.

di Aldo Trento
Come faccio ad accettare i miei limiti? È la domanda che per anni mi ha tormentato, e che mi capita di ascoltare spesso da coloro che incontro quotidianamente: giovani, adulti, anziani, sposati, consacrati, scapoli. Insomma, è una domanda che riguarda tutti, e che purtroppo genera una tristezza enorme sui volti di tanti. Una domanda che esige una risposta chiara e precisa, perché dalla risposta che incontriamo dipende un fattore decisivo che tutti desideriamo: la nostra autostima, la possibilità di dire “io”. Viviamo in un mondo di depressi, in cui l’accettazione di sé, così come si è, spesso sembra impossibile. La depressione si manifesta secondo modalità molto diverse: dall’angoscia del vivere alla bulimia, all’anoressia, alle crisi esistenziali che possono spingere perfino a odiare la vita. Sarei tentato di dare ragione a Cesare Pavese, che soffriva la durezza del “mestiere di vivere”. Un mestiere difficile, che spesso tentiamo di rendere più facile fuggendo i dolori, le responsabilità, le angosce, magari affidandoci a qualche sedicente esperto che promette di rivelarci la soluzione svuotandoci il portafoglio. Ma la depressione non si risolve con le scorciatoie e i metodi antistress. Per poter affrontare un male così oscuro, un limite così difficile da superare, bisogna innanzitutto chiarire bene i termini della questione, e poi cercare le ragioni della grande fatica che si deve fare per affrontarla. Perché ciò che non si affronta non si può riconoscere né capire, e quindi non può mai essere redento, non diventa mai una grazia.
«Padre, non mi sopporto con tutti questi miei limiti, per favore aiutami perché non so come affrontarli», mi supplicava una ragazza giorni fa.
Non si tratta di porre la questione a livello morale, perché il limite umano è ontologico, e perciò non eliminabile con uno sforzo di volontà. Si tratta, invece, di riconoscere e abbracciare questo limite.
L’uomo, in quanto creatura (anche se “divina”) è ontologicamente limitato. Solo Dio non ha limiti. Ogni creatura ne ha, perfino gli angeli che sono creature divine. L’uomo, come gli angeli, è stato creato per mezzo di un atto d’amore divino: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza». Quel “facciamo” sottolinea due cose: la prima è che prima l’uomo non c’era mentre adesso c’è, la seconda è che l’uomo è continuamente “fatto” da Dio, altrimenti cadrebbe nell’abisso del nulla.

La pietà di Dio
Per questo l’affermazione più bella che esiste, e che solo l’uomo in tutto l’universo può dire, è: “Io sono Tu che mi fai”. L’io umano, essendo “creatura” per sua stessa natura, dentro questo riconoscimento è come innalzato e trasformato dal Tu di Dio. In questa esperienza di abbandono al Mistero, si impara a guardarsi con gli occhi stessi del Mistero, con ironia. Dio gode per ognuno di noi, ci sorride, e mentre noi ci affanniamo per uscire dal nostro limite lui ci ripete in ogni momento : «Di un amore eterno ti ho amato, ti ho tratto a me perché ho avuto pietà del tuo niente».
La letizia di fronte al proprio limite è la caratteristica esclusiva di chi si riconosce figlio, si riconosce fatto in ogni istante. E che cosa c’è di più bello e affascinante che il vivere con un cuore traboccante di questa certezza: “Io sono Tu che mi fai”?
Sono convinto che l’offesa più terribile che possiamo rivolgere al Mistero coincida con l’incapacità di svegliarsi al mattino e scoprirsi amati. La bestemmia più grande la diciamo quando ci guardiamo allo specchio con il muso duro, incapaci di sorridere, incapaci di ironia, incapaci di sorprenderci “fatti in quel momento”. Uno che apre gli occhi al mattino dicendo “Io sono Tu che mi fai” non può che sorridere e mettersi in ginocchio davanti al Mistero. È ciò che mi commuove ogni mattina quando incontro gli ammalati terminali: inginocchiandomi davanti a ognuno do loro la comunione e li bacio. I loro occhi stanchi, spesso insonni e tormentati dal dolore, mi sorridono e alla mia domanda: «Come stai?», rispondono: «Molto bene, padre».
L’autostima, che è il motore della vita, comincia a livello di coscienza già al canto del gallo, come si diceva nel mio piccolo paese ai piedi delle Alpi. Lo svegliarsi al mattino ci pone sempre a un bivio: o partire guardando in faccia il Mistero, come il nostro cuore desidera, o partire dallo stato d’animo del momento, in balìa del nostro mutevole umore.
Sono due modi opposti di stare davanti alla realtà, e mentre il primo riempie la vita di certezza e speranza, il secondo la soffoca dentro l’angoscia degli stati d’animo, cangianti a ogni «discorde accento», come direbbe Giacomo Leopardi.

La rottura di Adamo ed Eva
Infine c’è un ultimo aspetto dei limiti umani, che ha la sua origine nel peccato. Quel peccato che la tradizione della Chiesa chiama “originale” e che ogni uomo riceve in eredità da Adamo ed Eva, i quali, nel loro affanno di essere come Dio, un giorno decisero di rompere il rapporto con il Mistero. Quella rottura, voluta dalla libertà umana, ha lasciato terribili conseguenze, terribili al punto che «nella pienezza dei tempi», come ci ricorda san Paolo, Dio si è fatto carne per restituire all’uomo quell’unità dell’io distrutta dal peccato. Da quella rottura in poi l’io ha sperimentato una specie di schizofrenia. Non più l’armonia fra sentimento e ragione, ma una frattura insanabile, che la Genesi rappresenta con l’immagine di Adamo ed Eva che si nascondono allo sguardo di Dio coprendosi con foglie di fico. «Eravamo nudi e abbiamo avuto paura di te», risponde Adamo a Dio che inutilmente li aspettava al solito appuntamento serale.
Questo io frantumato è l’origine di ogni altra forma di divisione. Adamo colpevolizza Eva della disobbedienza al Mistero: è la divisione della coppia umana. Caino uccide Abele: è la distruzione della famiglia. La torre di Babele, la confusione delle lingue: è la fine della comunicazione umana e l’inizio della confusione totale.

Un “io” di nuovo unito
Ovidio descrive magistralmente questa frantumazione dell’io : «Video meliora proboque, deteriora sequor», di cui lo stesso apostolo Paolo prende atto affermando però: «Non faccio ciò che il mio cuore desidera e faccio ciò che il mio cuore non desidera. (…) Chi mi libererà da questo corpo di morte?».
Dio si è fatto uomo solo per questo: ridare all’io umano quell’unità originale persa con il peccato di Adamo ed Eva. Dio, in Cristo Gesù, si è fatto peccato per ridonare la gioia di dire “io”. L’incarnazione è la fine della divisione, è l’inizio di un “io” finalmente unito. Ragione e sentimento non più nemici ma alleati, il cuore non più disperato ma pieno di certezza e speranza. Con l’incarnazione il cuore diventa amico del Mistero e la libertà umana può finalmente gridare: “Io sono Tu che mi fai”. L’uomo non è più il frutto del suo passato, non dipende più dai suoi antecedenti, non importa quali, non è più vittima delle sue miserie, non è più determinato dalle mille cadute quotidiane, bensì creato, voluto, amato in ogni istante.
I battiti del cuore non sono più affannosi, ma pieni di pace, come quelli di un bambino capriccioso quando è tra le braccia di sua madre.

padretrento@rieder.net.py
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13 ottobre 2009 2 13 /10 /ottobre /2009 07:32
La certezza delle foglie

lunedì 12 ottobre 2009

 

Nonostante le imponenti trasformazioni cui abbiamo assistito negli ultimi decenni, la cosa è certa. A prescindere da ogni discussione, dibattito, diatriba e parere contrario, il fatto è sicuro. Benché chiusi nel mondo virtuale, ostinati a far finta di niente, relegati in città cementificate, l’evento succederà lo stesso. Gli inspiegabili ritardi non lo cancelleranno. Arriva l’autunno e le foglie cadono.

 

 

È, per lo meno, seccante: esci di casa senza il maglioncino e hai freddo; lo porti con te e ti dà fastidio perché, invece, quel giorno fa ancora caldo. È seccante perché ci obbliga a constatare, disarmati, che le cose cambiano. E cambiano senza che noi possiamo minimamente metterci il becco. Cambiano anche se non lo programmiamo noi. Soprattutto seccante perché, se le cose cambiano, vuol dire che passano. Scorrono trascinate dal fiume del tempo.

 

E ti ricordi dell’antico poeta greco. Te lo hanno fatto leggere da ragazzo a scuola e allora ti sembrava strano che un tale Mimnermo si lamentasse perché la gioventù, che a te sembrava immutabile ed eterna, fosse invece destinata a passare: «Siamo come le foglie nate nella stagione fiorita della primavera, che crescono rapide ai raggi del sole; simili a queste godiamo per breve tempo del fiore della giovinezza».

 

 

Eppure confusamente capivi che aveva ragione lui e ti chiedevi che destino avrebbe avuto la tua foglia. E anche se poi, sempre a scuola, han cercato di farti credere che in fondo si tratta di un’immagine letteraria, di un puro gioco linguistico caro ai poeti delle più diverse culture, quando torna l’autunno quel «come le foglie», riappare nella sua inquietante verità. Magari nella forma dei versi di Ungaretti: «Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie».

 

Quando non prevale la conclusione nichilista: tutto finisce in niente, tentano di consolarti dicendo che a primavera le foglie ricrescono e tutto rinasce. Ma è un panteismo del tutto insoddisfacente. Rinasceranno pure delle foglie, ma la foglia che sono io dove va a finire? È ancora una volta Leopardi che pone la domanda giusta: «Lungi dal proprio ramo, / povera foglia frale, / dove vai tu?». Basta una foglia che cade per spingere alla domanda sul destino. Destino, cioè destinazione, scopo, meta. Siamo immersi nel tempo. Che è cambiamento, moto. Verso dove?

 

La saggezza del popolo cristiano sa che quel moto non è casuale: «Non casca foglia che Dio non voglia». E il cristiano Dante sapeva che quel «dove» dipende anche dalle nostre libere scelte. Per questo la grande metafora delle foglie autunnali è posta all’inizio dell’Inferno per descrivere le anime che scendono dalla barca di Caronte: «Come d’autunno si levan le foglie / l’una appresso de l’altra, fin che ‘l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie». E per questo su, in Paradiso, Cacciaguida, avo del poeta, parla dei beati come di un albero che «frutta sempre e mai non perde foglia».


 

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13 settembre 2009 7 13 /09 /settembre /2009 15:05

 La Chiesa è grande e lo sarà sempre. Sono gli uomini di Chiesa che a volte sono piccoli.



Ciao a tutti, è un po di tempo che non scrivo o pubblico qualcosa , ma credo francamente che non abbiate sentito più di tanto la mia mancanza. Dovendo essese onesto , alcuni mi hanno chiesto di dire la mia sul caso Boffo-Feltri / Avvenire/Il Giornale. Eccovi accontentati,anche se in ritardo ma dico la mia.

Innanzitutto  francamente non credo che Il direttore di Avvenire (ormai ex) sia omosessuale non ci credo proprio,e credo anche che le Gerarchie Ecclesiali l'avrebbero saputo e l'avrebbero "cacciato" dignitosamente con un semplice avvicendamento. Credo però che appena il Giornale ha aperto il caso io mi sarei dimesso, sia per non mettere in imbarazzo la Chiesa ,che per l'Avvenire . Nonostante gli innumerevoli attestati di solidarietà, di fronte all'opinione pubblica il giornale Avvenire non ne esce tanto bene visto anche i continui attacchi alla chiesa sferrati da molte parti anche da chi in questo caso ha difeso Boffo solo perchè dall'altra parte c'era il Giornale della famiglia Berlusconi. Credo anche che da questa vicenda ne esca male sia Feltri che Il Giornale, soprattutto per l'asprezza e l'accanimento dell'attacco verso Boffo , che per il fastidio dato alla Chiesa , che non dimentica tanto facilmente. Dietro a tutto questo ci sono però  due aspetti che secondo me sono i più importanti.
1) Il Giornale proprietà della famiglia Berlusconi
2) "guerra" all'interno delle Gerarchie Ecclesiali . Badate bene non ho detto Chiesa, perchè anche io faccio parte della chiesa come tanti bravi cristiani , ma non siamo in guerra con nessuno.

Sul primo aspetto , dico che anche se Berlusconi si è subito dissociato dal suo direttore peraltro assunto solo tre mesi fa ( strana coincidenza) , dobbiamo sapere che ormai il Premier ci ha abituati a dire e poi disdire dicendo che è stato frainteso , che i giornalisti distorcono sempre le sue parole ecc.ecc.  Io dico che l'editore (  quello che paga) se vuole , o meglio se gli interessa riece benissimo dopo il primo giorno ammettendo che non ne fosse veramente a conoscenza (per me è un bugiardo) , a far terminare la diatriba. Invece Feltri ha continuato per diversi giorni ,e non l'avrebbe poputo fare senza il compiacimento di Berlusconi. Feltri ha fatto il gioco di Berlusconi , fino ad arrivare ad ottenere le dimissioni di Boffo che di per se ad alcuni potrbbe sembrare una cosa dovuta, ma che leggendola fra le righe vuol dire : andate piano a criticarmi e criticare troppo il mio governo perchè anche io ho poi le mie cartucce da sparare. Perciò Attenzione.
Messaggio chiaro , e ricevuto. C'è da dire però che questo ciclone un po di fastidio dentro la PDL nell'elettorato più cattolico lo ha dato , ma continueranno i soliti proselitismi verso San Silvio. E lui stà preparando il suo martirio.


Sul secondo aspetto dico che all'interno della chiesa ci sono diverse correnti di pensiero e due in particolare si contrappongono, I Ruiniani e i Bertoniani. Francamente non mi preoccupa che ci siano diverse correnti di pensiero (spero però solo su questioni non evangeliche) ma che si arrivi ad usare certi comportamenti per arrivare a far prevalere il proprio pensiero be questo francamente mi inquieta. So benissimo che queste cose ci sono , ci sono sempre state ( la storia della chiesa ne ha visto di peggio) , e ci saranno sempre.
A me però piace pensare ad una Chiesa dalle diverse anime  che però cammina insieme ,completandosi a vicenda con un unico obiettivo.

Sono state scritte tante cose su questo fatto, e ceramete io ho scelto solo alcuni aspetti, sulla verità delle cose ,dei fatti mi attengo a quello che ha detto Boffo.  E per finire vorrei raccontarvi una storiella , mica tanto storiella perchè potrebbe essere accaduta veramente.

Dopo un breve periodo che Don Mario era in parrocchia a Sesso , esisteva in segreteria accanto il computer un telefono alla portata di tutti . Siccome la segreteria non era chiusa , tutti l'avrebbero potuto usare . Infatti dopo qualche tempo arrivavano bollette con importi e dati non sempre chiari e don Mario ha deciso di togliere l'apparecchio e lasciarlo solo nel suo ufficio. Se da quel periodo venisse fuori che da quell'apparecchio partirono telefonate equivoche e compromettenti , sareste capaci voi di dire che don Mario è omosessuale?  Capite come possdono essere  a volte le cose , come è facile distorcere la realtà dei fatti.

Per sintetizzare il fatto dico tre cose:
1) Per me l'Avvenire resta sempre un gran giornale che tutti i giorni ci racconta fatti ed esperienze che su altri giornali non troviamo .Fatti ed esperienze raccontati in modo positivo e che danno il senso dell'universitalità della Chiesa e di tutto quello che c'è di positivo sul pianeta.Difficilmente ci racconta di cronaca mondana o di pettegolezzi tanto cari a tanti giornali che purtroppo anche tanti cattolici e preti leggono.E' vero bisogna avere un ampio raggio di lettura per capire le cose da diversi aspetti , ma da li a farne come una sorta di bibbia alternativa ne passa

2)Per me il Premier Berlusconi centra e come, mi dispiace per quelli che credono in lui solo perchè è l'unico in grado di raggruppare un certo elettorato che da contro al centro sinistra. Non è un gran bel modo di fare politica e di questo passo continuando così approderemo ad un punto molto critico. L'unica fortuna per Silvio è che dall'altra parte non c'è nulla, l'inconsistenza. Ma il problema prima o poi verrà a galla.

3)La Chiesa.
La Chiesa è grande e lo sarà sempre. Sono gli uomini di Chiesa che a volte sono piccoli.



Spero di non avervi annoiato e a presto .

IL VOSTRO PUNZECCHIATORE
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13 agosto 2009 4 13 /08 /agosto /2009 15:40
La sentenza del Tar del Lazio sull'ora di religione è abbastanza preoccupante , Non conosco bene i termini della sentenza  , ma mi pare chiara una cosa , c'è il chiaro tentativo che  punta a ricondurre la sfera religiosa al personale escludendola dalla scuola.
Non si vuol assolutamente capire che l'ora di religione non è catechismo o indottrinamento, ma una componente importante di conoscenza della cultura di questo Paese, con buona pace dei laicistici.
DI QUESTO PASSO DOVE ANDREMO A FINIRE ?
BISOGNA CHE NOI CATTOLICI  , NOI GENITORI CATTOLICI  NON RESTIAMO ALLA FINESTRA A GUARDARE , MA BISOGNA ALZARE LA VOCE , FARSI SENTIRE .
COME E QUANDO ? DITE LA VOSTRA .
13 Agosto 2009
INTERVISTA
Coletti: «Uno Stato davvero
laico non emargina la religione
»


«Nessuna polemica», ma un sereno «invito a ragionare» sulla sentenza del Tar, che «da cittadino considero irrazionale e incongruente nelle sue conclusioni». Anche se getta acqua sul fuoco, monsignor Diego Coletti, presidente della Commissione episcopale per l’educazione cattolica e vescovo di Como, non rinuncia a esprimere tutte le sue perplessità e critiche su quanto deciso dal Tar del Lazio sull’insegnamento della religione cattolica nella scuola italiana.

Non è la prima volta che si assiste a ricorsi al Tar che hanno nel mirino l’ora di religione. Un accanimento, non trova?
«Siamo davanti a sostenitori della parte deteriore dell’Illuminismo. Nessuna critica globale, anche perché l’Illuminismo ha portato elementi positivi, ma non si può tacere che vi sono "illuministi" davvero poco capaci di ragionare».

Ma tra i ricorrenti vi sono anche esponenti di altre fedi religiose.
«Anche in questo caso intendo dire, con pacatezza e serenità, che forse non si è compreso il principio per il quale la religione cattolica è presente nella scuola. Non è affatto un principio confessionale, come i nostri fratelli di altre chiese cristiane forse temono, ma è un principio culturale, che parte proprio dalla presenza della cultura cristiana, che nel nostro Paese è stata espressa da quella cattolica, nella cultura, nella storia, nella società italiana. È in questa linea che si colloca la presenza dell’ora di religione nella scuola, come strumento per capire la nostra cultura e la nostra storia. Niente a che vedere con catechismo o proselitismo».

La sentenza del Tar, però, dà ragione ai ricorrenti che a loro volta parlano di discriminazione.
«La sentenza sembra nata e cresciuta proprio sopra un equivoco frutto della parte deteriore dell’Illuminismo, quello per cui la fratellanza universale la si raggiunge eliminando le differenze. E la religione, per loro, è un elemento da escludere dalla società».

E così dopo l’insegnamento a scuola, sarà la volta anche dell’aspetto sociale della propria religiosità?
«La religione non può essere cancellata dalla dimensione civica, e neppure può essere ridotta a un mero fatto personale e intimistico. È un fenomeno complesso e ha un suo rapporto reale e concreto con l’esprimersi della vita, anche di quella civica e sociale. Uno Stato davvero laico dovrebbe essere preoccupato di valorizzare tutte le identità, ciascuna a seconda del proprio peso e rilevanza culturale. Il fenomeno religioso ha una propria dimensione sociale e culturale che si esprime con presenze significative in moltissimi settori della società».

Il risultato della sentenza è che il 91% degli studenti italiani si trova a frequentare una materia considerata di serie B. Non è anche questa discriminazione?
«L’errore è pensare, sia in un caso (i non avvalentesi) sia nell’altro (chi la frequenta), che vi sia discriminazione. In questo caso nessuno è discriminato, perché coloro che non si avvalgono dell’ora di religione possono svolgere altre attività educative che comportano crediti scolastici. Ma mettere in un angolo la religione cattolica è un errore, oltre che un impoverimento dell’intera scuola e del percorso formativo di uno studente. Lo hanno capito anche moltissime famiglie non cattoliche e non cristiane che hanno deciso di avvalersi dell’insegnamento, proprio per permettere ai loro figli di avere una conoscenza più completa della nostra cultura e della nostra storia».

In una sua dichiarazione, ha parlato di "sentenza che rischia di incrementare ancora di più quella sorta di diffidenza sulla magistratura". Parole che hanno suscitato qualche reazione risentita dal fronte delle toghe.
«In Italia di tutto abbiamo bisogno tranne che di sentenze discutili e quasi evidenti prive di sostegno sostanziale. Ma non lo dico per unirmi al coro di chi attacca la magistratura. Dobbiamo far crescere la fiducia nei giudici. Io ne ho stima, ma non posso non sottolineare che una sentenza come questa è un errore, visto anche l’ampio coro di critiche che ha suscitato. Lo dico da cittadino italiano e non da vescovo».

Qualcuno potrebbe sottolineare che la sentenza non piace perché tocca un argomento sensibile per la Chiesa. Cosa risponderebbe?
«Mi piacerebbe che si venisse a discutere il perché la sentenza non mi convince. Non è una questione personale o di interesse di parte. Mi pare che nella sentenza si mostrino elementi di irrazionalità e di incongruenza».

Li vuole indicare?
«Parlare di discriminazione degli studenti non avvalentisi mi pare una motivazione chiaramente pretestuosa, visto che si possono avere crediti scolastici anche seguendo un corso di danza. L’altra motivazione addotta punta a ricondurre la sfera religiosa al personale escludendola dalla scuola. Anche in questo caso ribadisco l’ora di religione non è catechismo o indottrinamento, ma una componente importante di conoscenza della cultura di questo Paese, con buona pace dei laicistici».

Il ministro Gelmini ha annunciato che ricorrerà al Consiglio di Stato contro questa sentenza. Soddisfatto?
«Lo auspicavo. Mi sembra che svolga in modo corretto il proprio ruolo istituzionale, difendendo, tra l’altro, una norma emessa del ministero».
Enrico Lenzi
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13 luglio 2009 1 13 /07 /luglio /2009 20:53

Caritas in veritate

Luglio 13th, 2009 Posted in Uncategorized

Il Riformista 8 Luglio 2009

 

DOTTRINA SOCIALE E DIFESA DELL’UOMO

di Eugenia Roccella

 

 

La politica tende a ridurre le mille sfumature che differenziano la grande e multiforme famiglia cattolica, comprimendole in due sfere separate: l’etica del sociale e l’etica della vita. Lo schema segue le grandi semplificazioni generalizzanti, come la distinzione tra laici e cattolici, destra e sinistra; in questo caso, o si privilegia la difesa della vita, e si sta più a proprio agio con il centrodestra, o il terreno del sociale, e si pende a sinistra. Ci possono essere sovrapposizioni e accavallamenti, ma in genere si appartiene all’una o all’altra tribù, che ha il proprio linguaggio, i propri temi privilegiati. Sempre di “ultimi” si tratta: i più fragili, e dunque gli embrioni, i non ancora nati, i disabili estremi, i malati gravi; oppure gli ultimi nella scala sociale, i poveri, gli immigrati, i rifiutati, i bisognosi. L’enciclica “Caritas in veritate” fa piazza pulita di questa distinzione, affermando, con la forza di un pensiero straordinariamente limpido, che «la questione sociale è diventata integralmente questione antropologica».

 

Il rischio all’orizzonte è la fine di qualunque forma di umanesimo, forse persino la fine dell’umano tout court, grazie alla manipolazione non solo della biologia umana e del corpo, ma delle relazioni fondamentali, come quelle tra genitori e figli, e all’indebolirsi di quei rapporti che, attraverso la gratuità e il dono, affermano la fratellanza e l’uguaglianza tra persone.

È un rischio che la politica fatica a leggere, perché sempre troppo coinvolta nel presente, nelle urgenze del momento, mentre la Chiesa, che ha uno sguardo che oltrepassa la contingenza storica, da anni lancia l’allarme, insistendo, come ha fatto il cardinale Ruini, sulla questione antropologica, e non soltanto sulla tutela della vita.

 

Il Papa è chiarissimo: l’enciclica sociale di Paolo VI, la “Populorum progressio”, e il concetto di sviluppo su cui fa perno, va integrato con l’”Humanae vitae”, e bisogna ricordarsi che «il primo capitale da salvaguardare è l’uomo, la persona nella sua integrità». Non c’è vero sviluppo senza «apertura alla vita», senza combattere la cultura del «disincanto totale, che crede di aver svelato ogni mistero», e che promuove una «concezione meccanicistica» della vita umana.

«Come ci si potrà stupire dell’indifferenza per le situazioni umane di degrado, se l’indifferenza caratterizza perfino il nostro atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che non lo è?». Questa è la domanda che la politica, tutta, deve porsi, se vuole attrezzarsi per affrontare le nuove disuguaglianze che si prospettano, che già si stanno creando.

 

Asimmetrie sociali che derivano, per esempio, dall’idea che il corpo e le sue parti siano oggetti materiali, a disposizione del mercato, di cui si possono stabilire i diritti di proprietà. Non parlo solo dell’angosciante questione degli embrioni crioconservati, vite umane sospese tra l’essere e il non essere, ma anche dei molti problemi posti dall’utilizzo di cellule e tessuti, sia conservati per uso personale che a fini di ricerca; o ancora dalla possibilità di produrre farmaci su misura del singolo paziente, e dai nuovi pericoli di disparità di accesso che emergeranno.

Parlo di un mercato del corpo che già esiste, ed è l’altra faccia dei diritti individuali reclamati da alcuni: per esempio la vendita e il traffico di ovociti, problema inseparabile dalla fecondazione eterologa, di cui costituisce il versante commerciale negato.

Potrei citare l’esistenza di una rete internazionale di biobanche private, pronte a coprire ogni offerta possibile, da quella di embrioni belli e fatti (perché fare la fatica di sottoporsi ai trattamenti di fecondazione artificiale, quando si può avere il prodotto semilavorato?) a quella della conservazione delle staminali del cordone per uso autologo, ampiamente pubblicizzata nonostante la comunità scientifica sia concorde nell’affermare che ad oggi non c’è alcun vantaggio concreto per chi lo fa.

Solo il mistero della Creazione, che non si lascia penetrare così facilmente, ci ha salvato dalla produzione di ibridi uomoanimale, consentita dall’apposita Authority inglese, ma fallita nei laboratori; e saranno forse i risultati poco felici della diagnosi preimpianto a impedire che il nuovo eugenismo prenda piede, stabilendo nei fatti, oltre ogni proclama della Convenzione Onu sulla disabilità, che chi è imperfetto non ha diritto a nascere, e che una vita con qualche disabilità non è degna di essere vissuta.

 

«Il problema dello sviluppo è strettamente collegato anche alla nostra concezione dell’anima dell’uomo» si legge nella “Caritas in veritate”. La tensione verso la felicità, richiamata nella Costituzione americana, presuppone la capacità umana di guardare verso l’alto, come diceva Simone Weil, e non solo in avanti.

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  • : IL PUNZECCHIATORE
  • : ....oggi come oggi si tende a non esprimere pubblicamente le proprie idee per non urtare la sensibilità dell'altro,questo alla lunga può far perdere la propria identità ad un intera generazione. A.O
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