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25 dicembre 2011 7 25 /12 /dicembre /2011 19:19

 

 

Auguri di un Santo Natale dal Punzecchiatore 

 

 

 

 

 

E' Sempre Natale

 

 

 

nat.jpg    

 

E' Sempre Natale

Quando crediamo e difendiamo la vita,

quando ti ringraziamo per quanto già abbiamo,

quando sappiamo metterci in ascolto della Tua parola,

quando siamo di aiuto a chi ne ha bisogno,

quando dividiamo le nostre gioie con gli altri,

quando la speranza guida le nostre giornate e azioni,

quando sappiamo essere docili alla Tua volontà,

quando Ti riconosciamo come Padre e

Ti preghiamo e adoriamo in silenzio,

Tu, o Signore, nasci dentro di noi,

e per noi ogni giorno è NATALE!

 

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11 marzo 2011 5 11 /03 /marzo /2011 22:39
 «Pensai di corrispondere all'amore di Gesù ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico»
Il testamento spirituale del ministro cattolico assassinato in Pakistan Shahbaz Bhatti: «Voglio servire Gesù da uomo comune»

 

Pubblichiamo il testamento spirituale del cattolico Shahbaz Bhatti, ministro per le Minoranze del Pakistan, assassinato il 2 marzo a Islamabad da uomini armati. Bhatti aveva difeso con coraggio Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte per blasfemia in base a false accuse, e aveva ricevuto numerose minacce di morte perché, come Salman Taseer, governatore del Punjab assassinato da estremisti islamici, voleva riformare la legge sulla blasfemia.



"Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia.



Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.



Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa: «No, io voglio servire Gesù da uomo comune»".



Questa devozione mi rende felice. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora – in questo mio sforzo e in questa mia battaglia per aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese.

Molte volte gli estremisti hanno cercato di uccidermi e di imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Gli estremisti, qualche anno fa, hanno persino chiesto ai miei genitori, a mia madre e mio padre, di dissuadermi dal continuare la mia missione in aiuto dei cristiani e dei bisognosi, altrimenti mi avrebbero perso. Ma mio padre mi ha sempre incoraggiato. Io dico che, finché avrò vita, fino all’ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri.

Voglio dirvi che trovo molta ispirazione nella Sacra Bibbia e nella vita di Gesù Cristo. Più leggo il Nuovo e il Vecchio Testamento, i versetti della Bibbia e la parola del Signore e più si rinsaldano la mia forza e la mia determinazione. Quando rifletto sul fatto che Gesù Cristo ha sacrificato tutto, che Dio ha mandato il Suo stesso Figlio per la nostra redenzione e la nostra salvezza, mi chiedo come possa io seguire il cammino del Calvario. Nostro Signore ha detto: «Vieni con me, prendi la tua croce e seguimi». I passi che più amo della Bibbia recitano: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». Così, quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi incontro.

Per cui cerco sempre d’essere d’aiuto, insieme ai miei colleghi, di portare assistenza ai bisognosi, agli affamati, agli assetati.

* Shahbaz Bhatti, Cristiani in Pakistan. Nelle prove la speranza, Marcianum Press, Venezia 2008 (pp. 39-43)

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20 dicembre 2010 1 20 /12 /dicembre /2010 23:45
Cari amici è un pò di tempo che non mi faccio sentire e non pubblico niente . E' stata solo una questione di tempo non di argomenti , perchè di quelli in questo ultimo periodo c'è ne sarebbero stati molti .Riprendo a pubblicare con questa riflessione sul "desiderio" che forse pare una cosa di poca importanza ma invece............
buona lettura
ciao dal vostro punzecchiatore
CENSIS/ De Rita:
l’educazione del desiderio è
l'unica via di un’Italia senza
legge

 

 

lunedì 20 dicembre 2010

 

CENSIS/ De Rita: l’educazione del desiderio è l'unica via di un’Italia senza legge

«Il mio compito è rilevare che il desiderio non c’è più, lascio le analisi agli altri». E ancora: «L’unico desiderio che noi sentiamo come in comune a Dio e a noi, è la giustizia: è l’idea di giustizia quella che “copre” tutti e due i campi. C’è una doppia profondità del desiderio, e dunque anche una sua causa ontologica? Non lo sappiamo». Giuseppe De Rita, presidente del Censis, interviene sul sussidiario dopo la pubblicazione del volantino di Cl sul desiderio. Proprio il desiderio era stato il criterio-guida dell’ultimo rapporto Censis sulla situazione sociale del paese: quella di un’Italia ormai consegnata alla crisi, a causa dello spegnimento delle sue volizioni più profonde.

 

In questa società descritta come «fragile, cinica, passivamente adattativa, condannata al presente», qual è il desiderio di cui lei nel rapporto Censis accusa la scomparsa? Un desiderio senza qualità, un non-desiderio o un cattivo desiderio?

 

Il desiderio, secondo la mia tesi, non c’è: nel senso che il sovradimensionamento dell’offerta ha portato all’estinzione del desiderio. Abbiamo più possibilità di scelta, ma la possibilità di desiderare ci è tolta. Se un ragazzo esce oggi dal liceo e va all’università, rispetto a 10-20 corsi di laurea di una volta, trova adesso... quanti corsi? Può scegliere, ma non desidera. Ugualmente, se lei capita nella stanza di un bambino di oggi, trova una montagna di giocattoli. Il bambino può scegliere con quali di quei giocattoli divertirsi nella prossima mezz’ora, ma non li desidera più. Pensiamo ad un oggetto qualsiasi: un telefonino per esempio. Oggi possiamo scegliere tra un’enorme quantità di offerte,in realtà abbiamo desiderato soltanto il primo telefonino, quando era una cosa totalmente nuova. È l’offerta che disinnesca il desiderio.

 

Massimo Recalcati, dibattendo sui temi del vostro confronto, ha detto che c’è stato un errore nella trasmissione del desiderio da una generazione all’altra. Secondo lei questa trasformazione in negativo del desiderio è anche un problema di educazione?

 

Recalcati conosce senz’altro meglio di me le dinamiche della famiglia e della trasmissione generazionale. A me sembra di poter dire, come ho scritto nel rapporto citando Marcuse, che è il tardo capitalismo a realizzarsi con la moltiplicazione delle offerte. È questa strategia che disinnesca il desiderio, non è tanto un problema interno alla famiglia.

  

Giorgio Vittadini, in un suo recente editoriale su Avvenire, si è rifatto ad un’accezione ontologica di desiderio: la natura di ogni uomo è costituita dal suo desiderio di verità, di giustizia, di bellezza, espressione del nostro rapporto con l’infinito.

 

L’unico desiderio che noi sentiamo come un desiderio, per dir così, appartenente a Dio e a noi, è la giustizia: è l’idea di giustizia quella che “copre” tutti e due i campi. C’è una doppia profondità del desiderio, e dunque anche una sua causa ontologica? Non lo sappiamo. Aveva comunque ragione Leopardi nel dire che il desiderio è in ciascuno di noi, e che essere giovani significa avere il desiderio di desiderare. Io rilevo che questo desiderio non c’è più.

 

Lei nel Rapporto ha stretto un nesso molto forte tra legge e desiderio. Perché?

 

L’inconscio di ciascuno di noi, che io ho voluto trasporre nella sfera collettiva e sociale, è fatto da un’“alchimia” costante, quotidiana, tra desiderio e legge. Il meccanismo vede sempre un desiderio emergente e una legge - divina, dello Stato, della comunità, del padre - in qualche modo costrittiva. Ma se la legge evapora, il desiderio non si forma. È questo il meccanismo che non funziona più nella società italiana e destabilizza completamente la nostra personalità. Da cui questo senso di vuoto, di fragilità, di “rinserramento” in un sé stesso che non c’è.

 

Cl, nel suo volantino, dice che il vero problema del nostro tempo è chi può ridestare il desiderio, e si suggerisce che la strada non sia più quella dell’ideologia ma dell’esperienza: casi virtuosi di persone che «desiderano» e costruiscono. Che ne pensa?

 

Come tesi di fondo sono convinto che sia così, perché l’ideologia non conduce più a niente. I desideri, così come la vita, si formano nel cammino, quindi forse - forse - hanno ragione coloro che dicono che bisogna raccontare il cammino, se vogliamo far nascere altri desideri. Questo spiega Cl al pari di Nichi Vendola: entrambi raccontano e partono dall’esperienza.

 

Nel volantino si dice che l’alternativa radicale tra ideologia ed esperienza si pone anche per la Chiesa.

 

In questo è vero. La Chiesa oggi sta dibattendo se appoggiare Fini o Casini, come farebbe una centrale di politica ecclesiastica, si sarebbe detto una volta. La dimensione ecclesiale non c’è più, resta il fenomeno gerarchico: tre o quattro parlano per tutti. Allora la sfida del desiderio rivolta alla Chiesa è quella di indurre a camminare.

 

Scorrendo i dati che emergono dal rapporto Censis si può vedere che non sono poi tutti così negativi. Merito della nostra capacità di galleggiare, ammesso che sia una virtù e non un vizio?

 

 

 

La nostra capacità di galleggiare c’è e resiste bene. Sono anni ormai che galleggiamo, dalla prima vera crisi radicale del secolo, quella dell’11 settembre, e ci siamo nel mezzo ancora oggi. In dieci anni siamo diventati artisti del galleggiamento: nella famiglia, nelle piccole imprese, nelle realtà locali. Funziona ancora, ma stanca. Replicare stanca.

 

Ci sono quei 2milioni e 200mila giovani tra i 15 e i 34 anni che non studiano e non lavorano, dice il Rapporto, però c’è un 26 per cento di italiani che fanno volontariato. Come valuta questi aspetti contrastanti?

 

Come un cammino complicato. Il cammino storico di una nazione o di una società è dato da tanti processi, e il popolo che cammina è quello in cui ci sono tante realtà non profit e quello in cui i giovani stanno ad aspettare. C’è un insieme di atteggiamenti nel corpo sociale che non possono esser messi in colonna, in fila. È una molteplicità da decifrare. Io tento di interpretarla.

 

Esiste secondo lei il rischio che la persona, in assenza di desiderio, cioè di un io che riconosce altro al di là di sé, affidi la consistenza ultima dell’agire sociale allo Stato e alla sua capacità di produrlo?

 

No, perché la società può non desiderare, ma in ormai settant’anni di democrazia italiana non ha mai creato distorsioni che hanno richiesto l’intervento dello Stato. Nemmeno il ’68 è stato un’effettiva tensione sociale: era una tensione politica camuffata da tensione sociale. Ecco perché lo stato non ha avuto problemi nel gestirla.

 

Un'ultima domanda: lei, De Rita, è ottimista o pessimista?

 

Ho combattuto tutta la mia vita a dire che non ero un ottimista, mentre tutti mi dicevano che ero un ottimista beota. Quest’anno, visto che non sono stato un ottimista beota, tutti dicono che De Rita è diventato pessimista. E Mario Pirani ha detto: finalmente, aspettavamo che De Rita si convertisse.

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21 novembre 2010 7 21 /11 /novembre /2010 22:52

 

 

Non date al peccato l’ultima parola

 

 

 

 

L’ uomo oggi – intendo l’uo­mo occidentale – sta male, anche se cerca di vivere gaiamente il suo malessere, perché si è interdetto l’esperienza del per­dono da parte di Dio, e quindi l’e­sperienza della sua misericordia.

 

L’uomo non può vivere una buona vita senza questa esperienza. Egli è capace di agire male, ma è incapace di liberarsi dal male compiuto. Non dico di porre rimedio alle conse­guenze che la sua azione ha causato in sé e su gli altri. C’è un testo man­zoniano che ci aiuta a capire questo paradosso dell’uomo che può agire male e non può liberarsi dal male compiuto.

 

È la famosa notte dell’Innominato, nel momento in cui egli passa in rassegna tutte le sue scelleratezze. «Erano tutte sue; erano lui: l’orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quelle immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione» [ Promessi Sposi, cap. XXI]. Ed anche nelle Osservazioni sulla morale cattolica: «Il reo sente nella sua coscienza quella voce terribile: non sei più innocente; e quell’altra più terribile ancora, non potrai esserlo più» [ VIII, 3]. Con le proprie scelte ciascuno di noi genera se stesso, e diventa genitore di se stesso: sei quello che decidi di essere. Gli atti di ingiustizia non erano solo atti di cui l’Innominato era responsabile: «erano lui».

 

Esiste una misteriosa ma reale progressiva identificazione del nostro io con le scelte della nostra libertà. Se penso a un triangolo, non divento un triangolo. Se compio un furto, divento un ladro. Posso certo e devo restituire ciò di cui mi sono indebitamente impossessato, ma ciò non toglie il mio essere stato ciò che sono stato. Esiste come un’identificazione della persona coi suoi atti: «attaccata a tutti», come dice Manzoni.

 

La soluzione, la via di uscita sa­rebbe quella di un «ricomin­ciare da capo», come una sorta di rinascita e di rigenerazione. Ma «come può un uomo nascere quan­do è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» [Gv 3, 4]. Ma poiché l’uomo non può compiere questo miracolo, ha elaborato e in­ventato altre vie palliative di libera­zione dal male. Sono stati inventati vari surrogati dell’unico atto che potrebbe rigenerare l’uomo: il per­dono di Dio. Non li enumero tutti.

 

Mi limito a qualche riflessione sul tentativo più tragico, più disperato che l’uomo abbia mai compiuto di vivere senza il perdono di Dio: la ne­gazione del male morale. È un ten­tativo che è andato di pari passo con la negazione [dell’esistenza] di Dio. Intendo dire di un Dio coinvol­to nel destino della persona umana.

Ciò non è avvenuto per caso. La ne­gazione di Dio non ha coinciso ca­sualmente con la negazione del ma­le morale. I due, esistenza del male morale nell’uomo ed esistenza di Dio, stanno o cadono insieme. Nes­suno come Dostoevskij ci ha fatto riflettere su questo, soprattutto in due grandiosi romanzi, Delitto e ca­stigo e I fratelli Karamazov. «Se Dio non esiste tutto è permesso»: il frut­to della negazione di Dio per il vero ateo è la liberazione da ogni legge morale. Ma cosa accade in uomini come Raskolnikov o come Ivan Ka­ramazov? Vengono distrutti, alla fi­ne, dal delitto che hanno compiuto.

Elimina Dio dalla vita e la voce della coscienza si farà sempre meno im­periosa. Non sono certo la società e lo Stato ad impegnare la coscienza dell’uomo, a «legare» la sua libertà.

 

È il cuore del dramma dell’uomo di oggi. Ma c’è qualcosa nell’uomo che ha peccato che gli impedisce alla fi­ne di accontentarsi dei vari surroga­ti al perdono di Dio. È il trovarsi con se stesso, con un se stesso divorato dalla potenza distruttiva del rimor­so. Il castigo che segue al peccato – come hanno ben visto Manzoni e Dostoevskij – «precede la condanna di ogni tribunale ed è più terribile di ogni condanna. È questo 'castigo' la prova di Dio. Il peccatore può non riconoscere Dio nel suo castigo, ma se l’uomo non può impunemente offendere la legge, senza che il delit­to ricada su di lui, la distruzione psi­cologica che segue al delitto afferma ugualmente la 'divinità della leg­ge'» (Divo Barsotti, Dostoevskij. La passione per Cristo, ed. Messaggero di Padova).

 

Ma forse oggi si è già im­boccata un’altra strada. Si cerca di spiegare l’emergere del nostro esse­re coscienti di noi stessi, in prima persona, e quindi l’emergere della nostra libertà da una realtà di tipo neurobiologico, come si spiega un effetto con la sua causa. «Il mistero della coscienza verrà progressiva­mente rimosso quando risolveremo il problema biologico della coscien­za» (John Searle, Il mistero della co­scienza, Cortina). L’evento cristiano è la possibilità of­ferta all’uomo di essere rigenerato mediante il perdono di Dio: di na­scere di nuovo e di cominciare di nuovo. Il cristianesimo è la possibi­lità di dire in qualunque circostan­za: «ora ricomincio da capo», per­ché è il perdono di Dio sempre of­ferto all’uomo, ad ogni uomo. Dire 'Dio perdona' non significa: Dio decide di non tenere in conto le scelte della tua libertà, con una sor­ta di dissimulazione. Egli prende tremendamente sul serio le nostre scelte sbagliate, e ne assume il peso fino in fondo. L’assunzione di tutte le scelte sbagliate di ogni uomo è la Croce di Cristo.

 

 Ma nello stesso tempo il perdono di Dio consiste A nell’azione di Dio che trasforma la nostra libertà e rinnova alla radice il nostro io. Questo atto è più divino, è più grande dello stesso atto della creazione. All’accusa degli uomini, al loro peccato, Dio risponde col suo perdono. Esiste un limite contro il quale si infrange la potenza del male: il perdono e la misericordia di Dio.

 

Ancora Dostoevskij ha e­spresso mirabilmente la for­za rigeneratrice del perdono di Dio, nel discorso di un ubriaco, incapace di liberarsi dal vizio del bere che ha portato la sua famiglia nella miseria più nera, nel discorso di Marmeladov, il padre di Sonia, in Delitto e castigo. Marmeladov chie­de pietà. «Colui che ebbe pietà di tutti gli uomini, colui che tutto e tutti comprese avrà pietà di noi, egli è il solo giudice, egli verrà nell’ulti­mo giorno … Tutti saranno giudicati da lui ed egli perdonerà a tutti: ai buoni e ai tristi, ai santi e ai man­sueti … E quando avrà pensato agli altri, allora verrà il nostro turno: 'Avvicinatevi anche voi', ci dirà, 'avvicinateci, voi beoni, avvicinate­vi, voi disperati'. E ci avvicineremo tutti senza timore… E i saggi e i benpensanti diranno: 'Signore, per­ché accogli costoro?'. 'Io li accol­go… Perché nessuno di loro si è cre­duto degno di questo favore'. E ci tenderà le braccia e noi ci precipite­remo e scoppieremo in singhiozzi e comprenderemo tutto… E capire­mo tutto… Signore venga il tuo Re­gno».

 

 La pagina, a mio giudizio fra le più alte della letteratura cristiana di ogni tempo, sembra la filigrana della pagina evangelica che narra il pianto della prostituta perdonata e che ha solo il coraggio di baciare i piedi del Signore. E chi vide quel­l’incontro non poté non accusare Cristo di comportarsi come fosse Dio. È nella sua misericordia che E­gli rivela la sua divinità.

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22 ottobre 2010 5 22 /10 /ottobre /2010 23:49
Vi invito a leggere anche se lunga questa bella testimonianza di Cleuza Ramos dal Brasile. Mi ha fatto pensare molto , in modo particolare che se confidiamo solo nelle nostre forze nell'agire quotidiano anche di fronte a tante ingiustizie , arriviamo al punto di "mollare tutto" . C'è qualcuno di più grande che ci da la forza di continuare anche davanti a mille e mille difficoltà.Mi vengono in mente tante altre domande e considerazioni , ma vorrei che foste prima voi a dire la vostra.
Ciao il vostro Punzecchiatore  Artemio
"....mi hanno insegnato che sono padrona del mio “sì” e che però il risultato non dipende da me. Cristo sa fare molto bene il suo mestiere. Io lavoro e do tutta me stessa, ma il risultato non dipende da me " Claudia Ramos.
Cleuza Ramos e la teologia
della felicità

 

 

Da sempre cattolica e attivista per i diritti

 

dei senza terra, trovò pace solo quando

 

scoprì che era il suo impegno ad aver

 

bisogno di una “liberazione”. L’altro

 

mondo possibile della donna che ha dato

 

una casa a centomila brasiliani

di Aldo Trento

Cleuza Ramos è nata il 5 marzo 1954 nell’entroterra dello Stato di San Paolo, nella città di Espírito Santo do Pinhal. Viveva con i genitori e altri sei fratelli in una casa molto semplice, in campagna. Non avevano luce elettrica né acqua corrente, ma vivevano felici, vicino a un fiumiciattolo e lavorando la terra con la famiglia. Non avevano molti vestiti né scarpe, ma il cibo era abbondante: frutta, legumi e verdure. La vita era semplice, ma suo padre, un umile lavoratore, aveva un sogno: voleva che tutti i suoi figli studiassero. Aveva un fratello che viveva a San Paolo e decise di portare tutta la famiglia nella grande città, alla ricerca di un futuro migliore. Così, a dieci anni, Cleuza salì su un vecchio camion insieme con la sua famiglia. Fecero un viaggio di 300 chilometri fino alla capitale paulista. Tutti cantavano allegri, ma Cleuza piangeva, perché non voleva lasciare la sua terra.
Nella loro città, i Ramos erano una famiglia molto religiosa. La domenica facevano un bel pezzo di strada a piedi per non perdere la Messa e, in casa, recitavano abitualmente il Rosario tutti insieme. Ma arrivati a San Paolo non lo fecero più. Soltanto Cleuza continuò a cercare la Chiesa, e la sua battaglia cominciò proprio in quel periodo. «Andai a vivere in un quartiere poverissimo», racconta. «Non c’era nemmeno una chiesa vera e propria, era solo un capannone. A dieci anni mi unii alle “vecchie” della comunità per costruire la chiesa. Facevamo chermes, feijoadas, vendevamo vestiti, tutto per costruire la chiesa». Presto Cleuza si trovò sempre più coinvolta nell’attività della parrocchia di San Antonio. Ma la situazione della famiglia diventava sempre più difficile. Suo padre guadagnava pochissimo e avevano molta fame. Per questo Cleuza, che aveva frequentato la scuola fino alla quarta, cominciò giovanissima a lavorare come domestica. Di fronte a tutta questa povertà, iniziò a desiderare di trovare un uomo ricco, così sarebbe uscita da quella situazione. E a sedici anni, proprio davanti alla chiesa, incontrò il suo futuro primo marito. Juan, laureato in ingegneria, era un imprenditore nel campo dei compressori. La sua auto ebbe un guasto proprio in quella zona, e così i due si conobbero. Cleuza si sposò giovane e andò ad abitare in una casa di campagna, vicino a quella dove viveva con i genitori. Continuava ad aiutare in parrocchia, poi suo marito cominciò a proibirglielo e lei si sentì quasi prigioniera, ma non trascurò mai il lavoro, perché voleva servire. A proposito di quell’epoca, Cleuza dice: «Partecipavo alla catechesi, all’incontro con le coppie, a tutto quello che implicava un incontro, nella Chiesa. Nel 1980 lavoravo con chi viveva per strada e una volta alla settimana, la sera, distribuivamo brodo caldo. Al sabato andavo nella baraccopoli per fare lavoro di assistenza, distribuire cibi indispensabili e vestiti, aiutare a denunciare le nascite dei bambini, eccetera». Al marito non piaceva questo suo coinvolgimento con i poveri. Cleuza e Juan, nei primi anni di matrimonio, avevano avuto due figlie, Adriana e Amanda, e in casa non si smetteva di litigare. Suo marito la rimproverava di stare sempre fuori e con il passare del tempo i contrasti si aggravarono.

 

L’incontro con Zerbini

 

 

Nel 1986 la situazione familiare di Cleuza non era buona. Quell’anno il tema della Campagna di Fraternità (iniziativa di solidarietà e di evangelizzazione organizzata in tempo quaresimale dalla Conferenza episcopale brasiliana, ndr) era “Terra di Dio, terra di fratelli”. In parrocchia cercavano leader che aiutassero nella pastorale della terra. Cleuza non si candidò, ma dopo alcuni appelli rimasti senza risposta, il padre la convocò personalmente. E lei rispose prontamente di sì. Da allora Cleuza passò dal lavoro con le famiglie al lavoro con un movimento popolare. Divenne una leader del movimento dei lavoratori senza terra nella città di San Paolo. Le riunioni erano sempre più frequenti. Al marito non piacque vederla col microfono in mano, fare rivendicazioni di fronte alla municipalità, organizzare manifestazioni ovunque. Le liti si fecero sempre più frequenti, finché, nel 1989, Juan le chiese di scegliere: o il matrimonio o il movimento popolare. Cleuza scelse il movimento: «Quando mi sono sposata, lui era ricco e io povera, così non mi sono portata via niente. Volevo essere libera».

 

 

 


A questo punto, nel 1989, la storia di Cleuza Ramos si unisce con quella di Marcos Zerbini. I due si conoscevano già, dato che erano compagni di lotta nel movimento dei senza terra, e anche lui si era appena separato dalla moglie, la quale voleva che rinunciasse a tutto per una vita tranquilla. Cleuza e Marcos erano solo amici, ma di fronte alla situazione che stavano vivendo decisero di andare a stare insieme per costruire il movimento popolare. Così, in conflitto con le tradizioni che aveva seguito fino a quel momento, Cleuza andò a vivere con il quasi sconosciuto Marcos, in un’umile casa della baraccopoli.
In seguito compresero che un movimento fatto solo di rivendicazioni non dava nessun risultato. Allora diedero inizio all’esperienza dell’acquisto della terra per sistemare le famiglie. Così Cleuza racconta come nacque l’Associazione dei lavoratori senza terra (Atst): «Comprammo la prima terra in una grande area. Ogni lotto costava pochissimo, ma in questa terra servivano infrastrutture: acqua, luce… che però erano più care della terra stessa. Allora cominciammo a fare pressioni sul governo. E finalmente, dopo aver ricevuto da noi quarantamila lettere, il governatore Fleury ci fissò un’udienza. Poi lui stesso venne a visitare la nostra comunità: arrivando, si entusiasmò vedendo tante persone e fece installare acqua, luce e tutto il resto. Dopo quell’episodio abbiamo cominciato a fare meglio le lottizzazioni: compravamo il terreno, aspettavamo l’autorizzazione e costruivamo. A quel punto avevamo bisogno di scuole, e questa è stata un’altra battaglia, ma ci siamo riusciti. Così poco a poco il quartiere, pur essendo in periferia, è diventato proprio bello: aveva una scuola, acqua, luce, strade asfaltate. Ma vedevamo che mancava ancora qualcosa».

 


A un passo dal mollare tutto

 

 

Nel 2001, Cleuza arrivò a pensare di lasciar perdere tutto. Aveva ottenuto molto, ma sentiva sempre un vuoto dentro di sé. Gli unici ricordi gioiosi risalivano alla sua infanzia in campagna. Non era felice. «Piangevo sempre per quello che mancava e non ero soddisfatta di quello che già avevo. C’era una scuola, ma ne servivano dieci. Ed ero triste. Credevo che non ne valesse più la pena». Così rimuginava Cleuza, finché fece un certo incontro. Nell’agosto di quell’anno il dottor Alexandre Ferrari, medico pediatra, fece richiesta all’Università federale di San Paolo di essere mandato a lavorare in una delle aree dell’Atst. Cleuza racconta questo inizio: «Il dottor Ferrari voleva lavorare nella nostra scuola, perché lì avevamo molte adolescenti di 13-14 anni incinte. E i giovani avevano problemi di droga. Cominciò a fare un lavoro all’interno dell’istituto, insieme con i professori. E io non capivo molto bene quello che stava facendo, ma sapevo che era una persona diversa. Diceva che dovevo andare a conoscere i suoi amici. Parlava sempre di uno che si chiamava Giussani. Abbiamo iniziato così a diventare amici». Nel 2003, Alexandre invitò Cleuza a partecipare a un incontro latinoamericano della Compagnia delle Opere, a Rio de Janeiro. «In questo incontro ci si scambiavano esperienze: andava proprio bene per me. È lì che ho conosciuto il movimento di Comunione e liberazione. E non sarei più mancata a un appuntamento: tutto andava proprio bene per me. Nel movimento ho ritrovato la gioia che avevo perso, perché ho incontrato qualcosa di più. Ho veramente trovato la felicità, ho trovato la risposta alle mie domande». La grande novità in cui Cleuza e Marcos si sono imbattuti quando hanno incontrato il carisma di don Giussani, è stata il fatto di poter dare un nome e identificare la sete di infinito che li aveva sempre caratterizzati, perché, come dice Cleuza, «non basta avere solo la casa». Tutti i mesi all’Atst si organizzano riunioni per discutere di formazione, sicurezza, educazione civica. E la gente è accolta in una comunità in cui la maggior preoccupazione è la persona. Così Cleuza e Marcos sono sempre stimolati a cercare ulteriori benefici per l’Associazione, che oggi è riuscita a dotarsi di un posto di polizia, un centro per la salute e un ambulatorio medico a prezzi accessibili, oltre alle convenzioni con le università per ottenere borse di studio.

 

 

 



Cleuza spiega che aver incontrato Alexandre e i nuovi amici di Cl è stato decisivo per affrontare la vita in un modo nuovo. E seguendo questo cammino, nel 2004, Cleuza ha incontrato don Julián Carrón, il successore di Giussani alla guida del movimento. Quando lo ha sentito per la prima volta si è trovata in totale sintonia. Alla fine del seminario è andata da lui per congratularsi: aveva parlato delle sue domande, di tutto ciò che lei sentiva. «Per tutta la vita sono stata cattolica, e in quel momento ho compreso l’incontro di Giovanni e Andrea con Cristo. Da allora la mia vita è completamente cambiata. Ho capito che i miei capelli sono contati, ho capito che tutto quello che era accaduto rientrava nei piani di Dio, a partire da quell’interesse quasi inconsapevole per il movimento dei senza terra. Oggi faccio le stesse cose che facevo prima, lo stesso movimento popolare, ma non mi aspetto risultati. Cl mi ha insegnato che sono padrona del mio “sì” e che però il risultato non dipende da me. Cristo sa fare molto bene il suo mestiere. Io lavoro e do tutta me stessa, ma il risultato non dipende da me. Oggi festeggio tutte le vittorie e ringrazio Dio perché manca ancora qualcosa: è questa mancanza ad alimentare la speranza».

 

Una vita totalmente cambiata


In questa amicizia con don Carrón, Cleuza si è sentita abbracciata come mai le era accaduto. E da questo abbraccio è nato il desiderio di sposarsi con Marcos. «Nessuno mi aveva mai detto che dovevo sposarmi, ma ho capito che non stavo vivendo la mia vita in modo serio. Il movimento mi ha fatto capire che non stavo insieme a Marcos per costruire un movimento popolare: ho capito che Cristo mi aveva dato Marcos per costruire il cammino della mia vita, non soltanto per essere il mio sostegno. Allora in un primo momento ci siamo sposati soltanto civilmente. In seguito, però, dato che io ero diventata vedova e lui aveva ottenuto l’annullamento del suo primo matrimonio, abbiamo avuto la grazia di sposarci in Italia, nella chiesa di San Francesco, ad Assisi».

Oggi Cleuza rende grazie ogni giorno per questa storia che ha cambiato totalmente la sua vita. E la sua prima preoccupazione è comunicare alle persone la bellezza dell’incontro che l’ha trasformata. Per questo, nelle riunioni dell’Associazione, si leggono brani delle conversazioni di Carrón e proposte di un cammino educativo per tutti gli associati. «Ciò che ha salvato la mia vita è stato l’incontro che ho fatto», dice Cleuza. «In questo incontro ho trovato persone che mi hanno aiutato a capire quello che Cristo vuole da me. E oggi ho la grazia di tornare bambina, di provare la gioia di quando vivevo in campagna. Oggi, a 56 anni, sono felice e libera. Ma non è una libertà ingenua, ignara di tutti i problemi. La mia sicurezza è che Cristo mi ama molto. Non mi imporrà mai una croce più pesante di quella che posso portare. Capisco molto bene che il Padre non ha risparmiato la croce a suo figlio, quindi non risparmierà a me i miei drammi. Ma sono sicura di essere amata, e questa certezza mi rende felice. È in compagnia dei miei amici, di Carrón, di Marcos, di tutta la gente dell’Associazione, che questa fiducia cresce sempre più. Oggi non ho dubbi: Cristo ha scritto questo progetto per me. E sono contenta perché mi rendo conto che non sono io ad avere la capacità di fare quello che faccio, ma è Cristo che me lo ha chiesto e io do il meglio di me, sapendo che non sono in grado di far niente. E mi stupisce vedere come Cristo usa me, il mio nulla, per costruire un’opera così grande, che coinvolge più di centomila persone».
Cleuza continua ad affrontare i problemi della quotidianità dell’Atst, organizzando riunioni con le autorità per chiedere scuole, giardini d’infanzia. Partecipa agli incontri nelle facoltà e assiste ogni giorno decine di persone che la cercano per condividere la loro vita, chiedere un consiglio. Cleuza conclude: «Quando esco di casa penso: Signore, qual è l’avventura che mi prepari per oggi? Così vengo qui contenta e la giornata passa in un lampo».

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18 agosto 2010 3 18 /08 /agosto /2010 15:13

  

   

essere felici grazie ai limiti

 

 

 

 

 

 

 

  

Mary Flannery O'Connor (Savannah, 25 marzo 1925Contea di Baldwin (Georgia), 3 agosto 1964) è stata una scrittrice statunitense.

 

 

Perché proporre quest’anno al Meeting, e quindi a un pubblico italiano, una scrittrice del Sud degli Stati Uniti? Se confrontata con Leopardi, Pavese, Dante, con l’intero canone della letteratura italiana, cosa può aver da dire questa donna sul tema Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore?

Più di ogni altro scrittore moderno, Flannery O’Connor ha assunto una posizione che l’ha spinta a rimanere di fronte al cuore umano, descrivendolo in un modo che rende evidente come ci si senta soffocati, come il nostro desiderio si sbricioli e vada perduta ogni possibilità per l’uomo di essere felice, a meno che si rimanga di fronte all’Infinito. Storia dopo storia e lettera dopo lettera (dopo aver letto le sue lettere raccolte in The Habit of Being, in italiano Sola a presidiare la fortezza, pubblicato da Einaudi, qualcuno ha audacemente proposto per lei il titolo di Dottore della Chiesa), la O’Connor descrive la lotta dell’uomo con il bene e con il male, dando rilievo al dramma del nostro cuore, preso tra nichilismo e speranza, positivismo e mistero, con la “M” maiuscola.

Per lei, anche le cose più semplici, come l’appuntamento per una visita medica (vedi Ruby Turpin in Revelation), o una gita familiare (vedi il dramma tra la nonna e il Balordo in A Good Man is Hard to Find, in italiano Un brav’uomo è difficile da trovare), oppure un corso dietistico presso la locale YMCA (un’associazione maschile cristiana, come in Everything that Rises Must Converge,in italiano Ogni cosa che s'innalza deve ripiegare), diventano luoghi dove uomini e donne si confrontano con il definitivo, misterioso Tu che chiama ogni coscienza in ogni momento vigile della vita (“Ogni giorno è il giorno del giudizio” commenta un personaggio nel racconto Judgment Day). Un Tu che ci chiama fina dall’alba del tempo e con ancora maggiore immediatezza e urgenza dopo la Sua Resurrezione e Ascensione.

 

Tuttavia, non si rende giustizia alla O’Connor definendola una scrittrice religiosa, perché il tessuto dei suoi racconti è intriso di religione non per fare proselitismo, piuttosto per una visione delle cose che è tutt’uno con quella della Chiesa, e che cerca di evidenziare che la natura e la vita umana sono buone perché sono il riflesso di un’altra realtà, invisibile, in cui Dio è entrato morendo per essa. O’Connor non cerca di convincere il lettore su Dio, ma cerca di rendere “massima giustizia all’universo visibile” (le parole sono di Joseph Conrad) e lascia che i fatti che accadono nella realtà parlino da soli, perché è in questi fatti che Lui parla. Flannery odiava ogni tipo di falsa pietà o sentimentalismo, al punto da affermare che non le piaceva recitare preghiere scritte da santi, perché non necessariamente riflettevano i suoi sentimenti, mentre Dio li conosceva meglio di quanto esse potessero esprimere.

 

Non era interessata ad essere una scrittrice cattolica ma a essere una scrittrice, una scrittrice che era cattolica, nel senso che ciò che riceveva dalla Chiesa valorizzava la sua libertà e la sua capacità di guardare, né aveva paura di affermare ciò di fronte al mondo letterario e artistico del dopoguerra, che insisteva invece sulla morte di Dio e sul trionfo estetico della mancanza di ogni significato. Come Santa Teresa di Lisieux, la santa patrona delle missioni, Flannery O’Connor ha fatto questo dal suo piccolo studio in una piccola comunità della Georgia, dove si trovava a causa delle limitazioni che le derivavano dalla sua battaglia contro il lupus, la malattia autoimmune di cui era morto anche suo padre. Aveva capito che per essere felice doveva seguire il sentiero tracciato da Dio per la sua vita e che questo comprendeva anche i limiti della sua malattia e del suo talento, e che entrambi l’avevano portata faccia a faccia con il Destino buono che la chiamava e che lei voleva ascoltare.

 

 

 

La mostra di Rimini cerca, perciò, di allargare la sua conoscenza e notorietà nel mondo, di presentare la sua ironia e il suo amore verso la vita come un raggio di speranza per il mondo, una testimonianza che Dio è vivo e sta bene e continua a chiamarci, poco importa ciò che le cosiddette “grandi” menti dominanti nella letteratura e nella filosofia del ventesimo secolo hanno imposto al pubblico, in una concezione del mondo che non è una vera, una visione che annienta la speranza affermando ostinatamente che non vi è nulla oltre quello che vediamo e tocchiamo. Come Gesù, O’Connor ha accettato la croce perché conosceva il Grande Padre che avrebbe fatto risorgere la sua vita e con ogni possibilità di comunicare rimastale, con una lettera come dal suo letto di morte, ha continuato a dirlo al mondo, senza alcuna paura. 

  

  

Alcuni accenni sulla vita della O'Connor

  

Flannery O'Connor fu l'unica figlia di Edward F. O'Connor e Regina Cline O'Connor. Al padre fu, nel 1937, diagnosticato un lupus eritematoso per il quale morì l'1 febbraio 1941, quando Flannery aveva solo 15 anni. Non solamente Flannery dovette affrontare il peso della perdita del padre, ma anche il problema dell'ereditarietà della malattia.

All'età di sei anni, Flannery insegnò a un pollo a camminare all'indietro e fu la prima occasione di celebrità. Gli inviati della rivista Pathè News filmarono la piccola "Mary O'Connor" con il suo pollo e quelle immagini fecero il giro del paese. Flannery disse in seguito: "C'ero anch'io con il pollo. Ero là solo per assisterlo, ma fu il momento culminante della mia vita. Tutto quello che è accaduto dopo, è stato solo un anticlimax.".

La O'Connor frequentò la Peabody Laboratory School, presso la quale si diplomò nel 1942. Entrò al "Georgia State College for Women" (ora Georgia College and State University) per un corso della durata di tre anni e si laureò in sociologia nel giugno del 1945. Nel 1946 venne accettata al prestigioso Iowa Writers' Workshop.

Nel 1949 conobbe Robert Fitzgerald (traduttore dal greco di varie opere teatrali e di poemi, come l'Edipo re e i poemi omerici) e accettò l'invito di soggiornare con lui e la moglie Sally presso Redding, nel Connecticut.

Nel 1951 le fu diagnosticato il lupus, per cui fece ritorno alla fattoria di famiglia, Andalusia, a Milledgeville (Georgia). Le aspettative di vita erano di cinque anni, ma lei sopravvisse quasi per 15. Ad Andalusia allevava pavoni, arrivando ad averne un centinaio. Amante dei volatili, allevò anche anatre, galline, e utilizzò questi animali come simboli nei propri scritti. Descrisse i suoi pavoni in un saggio intitolato “The Kings of Birds”.

Flannery era una fervente cattolica, che si trovava a vivere nella Bible Belt, il Sud protestante. Si procurò libri di teologia cattolica e occasionalmente teneva conferenze su argomenti religiosi e letterari, viaggiando anche parecchio nonostante la fragilità della sua salute. Non si addormentava senza aver letto qualcosa della Summa Theologiae di Tommaso d'Aquino. Tenne pure una fitta corrispondenza epistolare con scrittori del calibro di Robert Lowell e Elizabeth Bishop. Non si sposò mai, confidando solo nella compagnia dei suoi corrispondenti epistolari e di sua madre.

La O'Connor scrisse 32 racconti, 2 romanzi, alcune prose d'occasione e più di 100 recensioni di libri per due giornali locali, mentre affrontava la battaglia contro il lupus. Morì al "Baldwin County Hospital" il 3 agosto 1964, all'età di 39 anni, per complicazioni dovute all'emergenza di un tumore in aggiunta al lupus. Fu sepolta a Milledgeville, Georgia, al Memory Hill Cemetery. Sua madre morì nel 1997.

Divenne famosa soprattutto per i due romanzi La saggezza nel sangue (1952) e Il cielo è dei violenti (1960). Significativi anche i suoi racconti, che in mezzo a situazioni grottesche e personaggi memorabili sottolineano la presenza di un fattore imponderabile nell'esistenza dell'uomo grazie all'introduzione nella trama di circostanze imprevedibili e a una profonda indagine sui comportamenti umani.

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12 maggio 2010 3 12 /05 /maggio /2010 07:39
Perdonare, perdonare , perdonare ,e ancora perdonare , anche davanti ad una delle cose più brutte che ci potrebbe capitare . Ma non è facile .
Dio ama anche te, bestia
che hai stuprato tua figlia
di Aldo Trento
 

Caro padre Aldo, ho abusato della mia figliastra, che vive con voi dopo che i servizi sociali l’hanno tolta da quello che era il mio focolare. Sono un mostro, sono come quel mostro che una delle sue bambine, che passò la stessa terribile esperienza di mia figlia, ha disegnato su quel foglio che lei mi ha dato qualche mese fa. Non sono degno di vivere tra gli uomini, e per questo ho tentato molte volte di farla finita… e non so perché Dio non me lo ha permesso. Non sopporto più di vivere, non me lo merito, mi sento un indemoniato, peggio delle bestie, che pur non avendo la ragione non arriverebbero a commettere quel che io, nella mia perversione, ho commesso. Non voglio che nessuno abbia pietà di me, non voglio nemmeno che mi si guardi, voglio solo che qualcuno mi tolga questa vita che non mi merito più. Padre, in questa mia disperazione, io, pedofilo, posso sperare che Dio mi perdoni? Padre, lei potrebbe avvicinarsi a me in carcere, anche senza guardarmi in faccia se la faccio vomitare, e pronunciare quelle parole semplici, le uniche che potrebbero darmi il diritto alla speranza: «Io ti assolvo dai tuoi peccati, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen. Vattene e non peccare più»? Padre, per favore, posso sperare di ascoltare queste parole e di vedere la sua mano tracciare davanti alla mia figura di mostro il segno della croce, l’unica cosa che ho imparato quando da bambino andavo a Messa, prima che io stesso fossi abusato molte volte da altre persone, fino a ridurmi a essere quello che sono? Padre, continuerò a essere per tutti un mostro, però per me sarebbe diverso passare la vita che mi rimane, giustamente in questo carcere, con la certezza di essere stato perdonato da Dio. Tutto sarebbe sopportabile se avessi la certezza che questo terribile crimine che ho commesso è stato perdonato da Dio, e che pur nella miseria della vita che respiro continuo a essere Figlio di Dio. Padre, la aspetto. Grazie.
 Mirko

Per i farisei sarebbe impossibile rispondere a questa lettera, come anche per i moralisti che governano la cultura dominante. Invece per un miserabile peccatore come me che sperimenta ogni giorno la tenerezza della misericordia divina, è un’allegria. Faccio questa premessa così che i puritani, gli alfieri della morale, non si alzino in piedi ancora una volta gridandomi che sono pazzo. Il peccato è peccato, e il crimine è un crimine, la bestialità è la bestialità, e chi vive questi disordini è giusto che ne paghi le conseguenze. Non dimentichiamoci che se esiste l’Inferno è per questi motivi. In questo senso il mio cuore ringrazia infinitamente il Santo Padre per la posizione ferma che ha preso di fronte ai fatti accaduti nella nostra Chiesa cattolica, e porto nella mia anima il suo immenso dolore per la campagna oggi in atto contro di lui, perché i puritani, le sentinelle con la loro diabolica carica di malvagità vogliono screditare la sua augusta persona, che nonostante gli attacchi continua a indicarci il cammino della verità e della misericordia. La lettera di Mirko mi è arrivata addosso come un raggio in un giorno pieno di sole, e ha suscitato in me il desiderio di trovare le parole capaci di offrire una speranza a quest’uomo.


Caro Mirko, prima di venire da te a confessarti vorrei dirti con tutto il mio affetto che Dio ti ama, che niente e nessuno potrà toglierti la dignità di figlio di Dio. Come vorrei che nell’attesa di vederti tu possa entusiasmarti del figliol prodigo, della samaritana, dell’adultera, di Zaccheo, per toccare con mano che non esiste peccato, per quanto esecrabile e mostruoso, che chi ti ha creato non possa perdonare. Che senso avrebbe il cristianesimo, un Dio che si è fatto uomo, se esistesse un uomo che non possa essere perdonato da Lui, se esistesse un peccato che non possa essere rimesso dalla sua infinita misericordia? Se dall’alba al tramonto del mondo esistesse un uomo o un delitto che non possa essere cancellato dalla misericordia divina, il cristianesimo sarebbe una grande menzogna.

 

 Sì, caro Mirko, perché il cristianesimo è soltanto, esclusivamente un Avvenimento di misericordia. Se non esistesse il mio peccato, se non esistesse il tuo peccato, se non fossero esistiti milioni e milioni di peccati, tanti quanti sono stati gli uomini che hanno calpestato questa terra, se non esistessero miliardi di uomini peccatori, non avremmo mai potuto sperimentare la dolcezza della misericordia divina. Che commozione la notte di Pasqua, quando ascoltando il Preconio pasquale sono rimasto con le lacrime agli occhi davanti all’affermazione: «Oh, felice colpa di Adamo, che meritò un così grande Salvatore»! Mirko, capisci che la liturgia pasquale afferma che è stato necessario il peccato di Adamo per poter dire oggi: “Tu, oh Cristo mio”, per poter godere oggi del suo sguardo pieno di tenerezza? Riesci a capire, Mirko, cosa significa?
Senza questa verità, tutti, “innocenti” o miserabili peccatori, saremmo disperati. Mirko, se io sono un criminale, se io sono un mostro, però sono figlio di Dio, sono il frutto della misericordia divina, sono Cristo stesso.

Bianchi come la neve

Davanti al tuo grido di perdono, alla tua lettera insudiciata dalla tua miseria, non meno grande della mia (non dimentico mai che se io non sono arrivato alla tua perversione e non ci arriverò, è esclusivamente perché Dio ha pietà di me, mettendo la sua mano potente sulla mia testa, perché se così non fosse da un momento all’altro precipiterei nelle cose più impensabili e deplorevoli che la libertà umana, senza Cristo, possa immaginare), provo una tenerezza infinita, la stessa che provai quando abbracciai la tua cara figliastra, che vede in me un “papà buono”. Però io le dico sempre: «Non sono buono io, è Gesù che è buono con me, ed è Lui a guidare il mio cuore perché sia buono. Ecco perché sono buono con te». Per questo posso dialogare con lei, parlando di te, come Cristo le parlerebbe di te. Per questo posso pregare con lei che il tuo cuore si penta, perché tu riconosca la misericordia di Dio, perché lei, senza censurare niente, possa nella pazienza del tempo non dico dimenticare, ma perdonarti, comprendendo che tu stesso sei stato a tua volta vittima di un abuso e che, purtroppo, se uno nella vita non incontra un abbraccio misericordioso, si ritrova capace solo di violenza.
Mirko, diceva Cesare Pavese che «qualsiasi violenza nasce dalla mancanza di tenerezza». È stato così per la tua figliastra, è stato così per te, è stato così e sarà così per qualsiasi uomo che si macchi di un piccolo o grande delitto. Però quello che desidero è che tu percepisca che nel cristianesimo non esiste crimine che non possa essere perdonato, quando la libertà umana riconosce anche solo per un secondo la sua responsabilità e chiede perdono. Ricorda che nella Divina Commedia esiste un personaggio che Dante era convinto di incontrare all’Inferno, per via dei suoi peccati vergognosi, però lo incontra con sua grande sorpresa nel Purgatorio. Quando lo vede gli domanda come abbia fatto a fuggire dal fuoco dell’Inferno dopo un’esistenza totalmente sgretolata. E lui gli risponde: prima di morire ho pensato alla Vergine Maria, e una lacrima è scesa dai miei occhi. Era stata sufficiente una cosa tanto piccola, in un momento di lucidità quando già era sul punto di morire, per meritare la salvezza.
Mirko, come desidero vederti, confessarti, assolverti, anche in nome di tua figlia, che da mesi ha ritrovato il sorriso e la gioia di vivere. L’uomo non è e non sarà mai il frutto dei suoi peccati, dei suoi antecedenti, non importa quali siano stati: è e sarà il frutto della misericordia divina. Non dimenticarti mai ciò che da quando ti conosco continuo a ripeterti: «Voi siete relazione con l’Infinito». «Io sono Tu che mi fai». E poi ciò che dice il profeta: se i tuoi peccati erano neri come la notte, diventeranno bianchi come la neve.

Quid stat, videat ne cadat
Ti chiedo solo una cosa: non guardare allo sterco in cui sei sommerso, ma alla perla che porti dentro al tuo cuore, perché quella perla è la Presenza di Gesù che ti guarda, così come ha guardato quel giorno Maria Maddalena e tutti i peccatori che gridano tutti i giorni e tutte le notti: “Signore, abbi pietà di noi”. E non dimenticarti mai delle parole di Gesù: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra». Dice il Vangelo: «Se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani».
Il peccato non si pesa con la bilancia, per la quale c’è chi è più peccatore e chi lo è meno. Il peccato è peccato, senza nulla togliere alla gravità di alcuni crimini rispetto ad altri, però tutti abbiamo peccato. E che nessuno si permetta di gridare all’“untore” di manzoniana memoria, perché se io non faccio quello che fate voi è solo perché Dio mi tiene stretto tra le sue braccia. Non dimenticarti quello che diceva un monaco santo: ciò che non è successo in settant’anni, se uno si dimentica di Cristo può precipitare nell’abisso in un secondo. Ha ragione l’apostolo Paolo: «Quid stat, videat ne cadat» («Chi crede di stare in piedi guardi di non cadere»).
Signore, non ci muoviamo da qui se Tu non sei con noi, disse Mosè prima di riprendere la sua marcia verso la terra promessa.
Infine, caro amico, che la pena che stai scontando, che non è paragonabile al delitto che hai commesso, sia un’occasione per scoprire una cosa che non ti è mai capitata nella vita: sentirti amato, perché sei perdonato!

 

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21 aprile 2010 3 21 /04 /aprile /2010 23:32

 

Non so più cosa pensare di questa persona . Adesso si pone addirittura al di sopra delle leggi della Chiesa . Incredibile , veramente incredibile.

Cara Cei , cari cattolici " tradizionalisti " cosa mi dite di questa cosa?

E non venitemi a raccontare che in fin dei conti sarà poi nostro Signore a giudicare . E' un brutto precedente che permetterà ora ad alcuni parroci "progressisti" di dire : se l'ha fatta lui , perchè non possiamo darla ad altri che forse  la meriterebbero  di più?

E quel povero catechista che fino a ieri s'è dannato a precisare che i divorziati non possono accostarsi al sacramento della Comunione perchè....., a quel povero catechista cosa diciamo.

Comunque non possiamo processarlo , ha l'immunità parlamentare , il pubblico impedimento , e forse anche uno speciale salvacondotto all'interno del Vaticano che gli permette di arrivare direttamente davanti a San Pietro senza fare inutili attese e processi estenuanti.

Ridiamoci sopra che è meglio . Incredibile , veramente incredibile.

 Comunione a Berlusconi,

 

imbarazzo della Cei.berlusconi_stanco_R375_18ge.jpg

di Giacomo Galeazzi
Tratto da Oltretevere, il blog di Giacomo Galeazzi, il 20 aprile 2010

 

Il fatto che il presidente del Consiglio abbia potuto accedere al sacramento della comunione nel corso dei funerali di Raimondo Vinello svoltisi a Milano, provoca imbarazzo nella Cei.

Fonti ufficiali preferiscono non pronunciarsi per evitare alla Chiesa nuove polemiche, tuttavia si fa presente che quando personalità di questo tipo si mettono in fila per l’eucaristia è difficile per il prete dire di no. Sarebbe opportuno, spiegano, una maggiore discrezione da parte di personalità così note. Anche alla diocesi di Milano ripetono: «il prete se l’è trovato davanti, era in difficoltà». Ma in ogni modo anche dal capoluogo lombardo cercano di non alimentare le polemiche. «Troveremo poi il modo di spiegare ai fedeli quello che è accaduto», dicono e raccontano di un Berlusconi che più volte ha cercato di prendere la comunione. D’altro canto se in effetti il tema della comunione ai divorziati risposati è al centro di un dibattito che va avanti da tempo nella Chiesa, la posizione del premier è particolare. È infatti divorziato e poi risposato civilmente, ma anche il secondo matrimonio - che formalmente non conta per la Chiesa in quanto civile - è oggi in crisi. In ogni caso la dottrina e il magistero su questo punto non sono comunque cambiati: e anzi Benedetto XVI ne ha ribadito tutta intera la sostanza nel recente documento, «Sacramentum caritatis», cioè nell’esortazione apostolica post- sinodale. Il che significa che il magistero non solo è stato confermato dal Papa ma discusso dal sinodo generale dei vescovi di tutto il mondo, il primo che si tenne sotto il pontificato di Ratzinger. Nel testo di Benedetto XVI si legge: «Se l’Eucaristia esprime l’irreversibilità dell’amore di Dio in Cristo per la sua Chiesa, si comprende perchè essa implichi, in relazione al sacramento del Matrimonio, quella indissolubilità alla quale ogni vero amore non può che anelare». Quindi il Papa proseguiva così: «I pastori, per amore della verità, sono obbligati a discernere bene le diverse situazioni, per aiutare spiritualmente nei modi adeguati i fedeli coinvolti. Il Sinodo dei vescovi ha confermato la prassi della Chiesa, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere ai sacramenti i divorziati risposati, perchè il loro stato e la loro condizione di vita oggettivamente contraddicono quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa che è significata ed attuata nell’eucaristia». «I divorziati risposati, tuttavia, nonostante la loro situazione - si legge ancora - continuano ad appartenere alla Chiesa, che li segue con speciale attenzione, nel desiderio che coltivino, per quanto possibile, uno stile cristiano di vita attraverso la partecipazione alla santa messa, pur senza ricevere la comunione, l’ascolto della Parola di Dio, l’adorazione eucaristica, la preghiera, la partecipazione alla vita comunitaria, il dialogo confidente con un sacerdote o un maestro di vita spirituale, la dedizione alla carità vissuta, le opere di penitenza, l’impegno educativo verso i figli». L’insegnamento della Chiesa è stato poi ribadito al Congresso mondiale eucaristico tenutosi in Canada nel 2008.

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3 aprile 2010 6 03 /04 /aprile /2010 09:04

 

Cari Amici auguro a tutti voi una Santa  e serena Pasqua  .

 

Siate lieti e felici perchè il Signore che ci ama e vuol bene al di la di ogni nostra aspettativa ,ancora una volta RISORGE .

 

 

 

AUGURI AUGURI AUGURI  dal vostro Punzecchiatore - Artemio e Famiglia

 

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Anche noi siamo accorsi al sepolcro. 
Anche noi siamo andati oltre la pietra. 
Anche noi abbiamo visto! 
Siamo chiamati a fare il passo decisivo della fede. 
La risurrezione di Gesù 
ci invita ad uscire dalla nostra incredulità, 
a scegliere con convinzione e fiducia la via del cielo. 

È Pasqua! 
È il giorno della vita che più non muore, 
della gioia che non ha mai fine. 
È Pasqua! 
È il tempo del credente che esce allo scoperto, 
che testimonia la sua speranza, 
che si fortifica nelle difficoltà, 
che annuncia la vita nuova in Cristo risorto. 

È Pasqua! 
Nella Chiesa, per la Chiesa, con la Chiesa 
che annuncia speranza là dove regna la disperazione, 
che annuncia una forza là dove si subisce la violenza, 
che annuncia il riscatto là dove vige la schiavitù. 

È Pasqua! 
Cristo è veramente risorto, per sempre, per tutti! 
La sua risurrezione è speranza, certezza. 
Diventiamo noi stessi testimoni per gli altri. 
Curiamo le ferite dei nostri fratelli. 

È Pasqua!

 


 

 

 

 

 

 

 

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1 aprile 2010 4 01 /04 /aprile /2010 01:48

Più grande del peccato

T Ci sarebbe da discutere a lungo, sulle vicende che hanno portato Benedetto XVI a scrivere

la sua Lettera ai cattolici d’Irlanda. E si potrebbe farlo partendo dai fatti, da numeri

e dati che - letti bene - dicono di una realtà molto meno imponente di quanto possa

sembrare dalla campagna feroce dei media. Oppure dalle contraddizioni di chi, sugli

stessi giornali, accusa - a ragione - certe nefandezze,ma poche pagine più in là giustifica

tutto e tutti, specie in materia di sesso. Si potrebbe, e forse aiuterebbe a capire meglio il

contesto di una Chiesa davvero sotto attacco, ben al di là dei suoi errori. Solo che il gesto

umile e coraggioso del Papa ha spostato tutto più in là. Verso il cuore della questione.

Chiaro, la ferita c’è. Ed è gravissima. Di quella specie che ha fatto dire parole di fuoco

a Cristo («Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe

meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina e fosse gettato negli abissi…») e

ai suoi vicari.

C’è la sporcizia, nella Chiesa. Lo disse chiaro e forte lo stesso Joseph Ratzinger nella Via

Crucis di cinque anni fa, poco prima di diventare Papa, e non ha smesso mai di ricordarlo

dopo, con realismo. C’è il peccato, anche grave. C’è il male e l’abisso di dolore che

il male si porta dietro. E c’è l’esigenza di fare tutto il possibile - pure con durezza - per arginare

quel male e riparare a quel dolore. Il Papa lo sta già facendo, e la sua Lettera lo ribadisce

con forza, quando chiede ai colpevoli di risponderne «davanti a Dio onnipotente,

come pure davanti a tribunali».

Ma proprio per questi motivi il vero cuore della questione, il focus dimenticato, sta altrove.

Accanto a tutti i limiti e dentro l’umanità ferita della Chiesa c’è o no qualcosa di

più grande del peccato? Di radicalmente più grande del peccato? C’è qualcosa che può

spaccare la misura inesorabile del nostro male? Qualcosa che, come scrive il Pontefice,

«ha il potere di perdonare persino il più grave dei peccati e di trarre il bene anche dal più

terribile dei mali»?

«Ecco dunque il punto: Dio si è commosso per il nostro niente», «Non solo: Dio si è commosso

per il nostro tradimento, per la nostra povertà rozza, dimentica e traditrice, per la nostra meschinità.

È una compassione, una pietà, una passione. Ha avuto pietà per me».

È questo che porta la Chiesa nel mondo, e non certo per merito, bravura o tantomeno

coerenza dei suoi: la commozione di Dio per la nostra meschinità. Qualcosa di più

grande dei nostri limiti. L’unica cosa infinitamente più grande dei nostri limiti. Se non si

parte da lì, non si capisce nulla. Impazzisce tutto, letteralmente.

È capitato - capita - anche a noi di schivare quella commozione, di sfuggirla. A volte è

nella Chiesa stessa che si riduce la fede a un’etica e la, moralità a un’impossibile rincorsa

solitaria alle leggi, quasi che aver bisogno di quell’abbraccio fosse una cosa di cui doversi

vergognare .Ma se si dimentica Cristo, se si fa fuori la misura totalmente diversa che Lui

introduce nel mondo ora, attraverso la Chiesa, non si hanno più i termini per capire e

giudicare la Chiesa stessa.

Allora diventa facile confondere l’attenzione per le vittime e il riguardo per la loro storia

con un silenzio connivente, e la prudenza verso i colpevoli veri o presunti – accusati,

magari, sulla base di voci affiorate dopo decenni – con la voglia di «insabbiare» (che

pure a volte, evidentemente, c’è stata). Diventa quasi inevitabile straparlare di celibato

senza sfiorare nemmeno il valore reale della verginità. E diventa impossibile capire perché

la Chiesa può essere dura e materna insieme, con i suoi sacerdoti che sbagliano. Può

punirli con severità e chiedere loro di scontare la pena e riparare al male (lo ha già fatto,

non da oggi; e lo farà, sempre),ma senza spezzare - se possibile - il filo di un legame, perché

è l’unica cosa che può redimerli. Può chiedere ai suoi figli «siate perfetti come è perfetto

il Padre vostro» non per domandare un’impossibile irreprensibilità, ma per

richiamare una tensione a vivere la stessa misericordia con cui ci abbraccia Dio («siate

misericordiosi come è misericordioso il Padre che è nei cieli»).

È proprio per questo che la Chiesa può educare. Che, in fondo, è la vera questione

messa in discussione da chi la sta accusando («vedete che sbagliano anche i preti, e di

brutto? Come facciamo ad affidargli i nostri bambini?»), come se il suo essere maestra

dipendesse tutto dalla coerenza dei suoi figli, e non da Lui. Da Cristo. Dalla Presenza

che – tra tutti gli errori e gli orrori commessi - rende possibile nel mondo un abbraccio

come quello del Figliol prodigo ritratto da Chagall . Benedetto XVI scrive: «Convertirsi a Cristo significa in fondo proprio questo: uscire dall’illusione dell’autosufficienza per scoprire e accettare la propria indigenza, esigenza del suo perdono».

Ecco, l’abbraccio di Cristo, dentro la nostra umanità ferita e indigente e al di là del male

che possiamo compiere. Se la Chiesa – con tutti i suoi limiti - non avesse questo da offrire

al mondo, persino alle vittime di quelle barbarie, allora sì che saremmo perduti.

Tutti. Perché il male ci sarebbe sempre .Ma sarebbe impossibile vincerlo.

TRACCE

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Presentazione

  • : IL PUNZECCHIATORE
  • : ....oggi come oggi si tende a non esprimere pubblicamente le proprie idee per non urtare la sensibilità dell'altro,questo alla lunga può far perdere la propria identità ad un intera generazione. A.O
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