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31 dicembre 2010 5 31 /12 /dicembre /2010 13:10

 

COSA VORREI DA QUESTO NUOVO ANNO?

  Australia

 

Francamente non ci ho ancora pensato, e sono sicuro che se scrivo così all'inprovviso corro il rischio di cadere in qualche banalità.

Una cosa mi preme innanzitutto mettere in evidenza , quella cioè che prima di "chiedere" qualcosa per iul nuovo anno vorrei ringraziare il Signore per quello che mi ha dato quest'anno, anzi per quello che mi ha dato durante questi anni.

Ho ricevuto tanto dalla vita , la  moglie , i figli, i genitori , i suoceri ,i nonni, i tanti parenti , i tanti amici , i colleghi di lavoro, il mio lavoro, la casa, il mio paese, la mia comunità,la salute,e per finire , ma non perchè è ultima la Fede. Anzi se durante questi anni , durante quest'anno trascorso ho superato certi momenti non facili , è stato proprio il fatto di essere stato sostenuto dalla Fede . La Fede il quel Bambino di cui in questi giorni abbiamo festeggiato la nascita .

Sinceramente per tutti i doni che il Signore mi ha dato mi viene difficile chiedere qualcosa di meglio. Sia ben chiaro , non è mica stato tutto rosa e fiori, di momenti tristi la vita c'è ne riserva continuamente. Ma adesso come adesso mi sento di ringraziare molto per quello che ho ricevuto. So benissimo che ci sono persone che in questi giorni sono in situazioni molto differenti dalla mia , persone che soffrono per mille e mille motivi e non riescono a ringraziare il Signore per le tribolazioni che stanno vivendo. Come non essere comprensivi con loro ? Bisogna trovarsi in certe situazioni per comprendere . Ecco allora un desiderio e un augurio grosso l'avrei per il prossimo anno; quello che ci siano sempre più persone fortunate come me. Questo chiedo al Signore per il prossimo anno .

 

A TUTTI  VOI MIEI CARI AMICI  UN AUGURIO GRANDE E SINCERO PERCHE' QUESTO NUOVO ANNO CHE STA' PER INIZIARE SIA FECONDO DI TANTE COSE BELLE , E NON CI SCORAGGINO LE TANTE SITUAZIONI DIFFICILI CHE INCONTREREMO . LA SPERANZA SOSTENUTA DALLA FEDE  CI SIA COMPAGNA PER QUESTO NUOVO 2011.

 

TANTI AUGURI A TUTTI 

 

Artemio e famiglia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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24 dicembre 2010 5 24 /12 /dicembre /2010 01:10

 

 

 Auguriamo a tutti voi un santo e sereno Natale 

 

Auguri , auguri augurissimi

 

Artemio e famiglia

 

                                        --------------------------------------------------------------------------------------------------------------

 

 

 Immagine2

 

 

La notte è scesa
e brilla la cometa
che ha segnato il cammino.
Sono davanti a Te, Santo Bambino!

Tu, Re dell’universo,
ci hai insegnato
che tutte le creature sono uguali,
che le distingue solo la bontà,
tesoro immenso,
dato al povero e al ricco.

Gesù, fa’ ch’io sia buono,
che in cuore non abbia che dolcezza.

Fa’ che il tuo dono
s’accresca in me ogni giorno
e intorno lo diffonda,
nel Tuo nome.

(Poesia "A Gesù Bambino" - Umberto Saba)

 

 

 

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20 dicembre 2010 1 20 /12 /dicembre /2010 23:45
Cari amici è un pò di tempo che non mi faccio sentire e non pubblico niente . E' stata solo una questione di tempo non di argomenti , perchè di quelli in questo ultimo periodo c'è ne sarebbero stati molti .Riprendo a pubblicare con questa riflessione sul "desiderio" che forse pare una cosa di poca importanza ma invece............
buona lettura
ciao dal vostro punzecchiatore
CENSIS/ De Rita:
l’educazione del desiderio è
l'unica via di un’Italia senza
legge

 

 

lunedì 20 dicembre 2010

 

CENSIS/ De Rita: l’educazione del desiderio è l'unica via di un’Italia senza legge

«Il mio compito è rilevare che il desiderio non c’è più, lascio le analisi agli altri». E ancora: «L’unico desiderio che noi sentiamo come in comune a Dio e a noi, è la giustizia: è l’idea di giustizia quella che “copre” tutti e due i campi. C’è una doppia profondità del desiderio, e dunque anche una sua causa ontologica? Non lo sappiamo». Giuseppe De Rita, presidente del Censis, interviene sul sussidiario dopo la pubblicazione del volantino di Cl sul desiderio. Proprio il desiderio era stato il criterio-guida dell’ultimo rapporto Censis sulla situazione sociale del paese: quella di un’Italia ormai consegnata alla crisi, a causa dello spegnimento delle sue volizioni più profonde.

 

In questa società descritta come «fragile, cinica, passivamente adattativa, condannata al presente», qual è il desiderio di cui lei nel rapporto Censis accusa la scomparsa? Un desiderio senza qualità, un non-desiderio o un cattivo desiderio?

 

Il desiderio, secondo la mia tesi, non c’è: nel senso che il sovradimensionamento dell’offerta ha portato all’estinzione del desiderio. Abbiamo più possibilità di scelta, ma la possibilità di desiderare ci è tolta. Se un ragazzo esce oggi dal liceo e va all’università, rispetto a 10-20 corsi di laurea di una volta, trova adesso... quanti corsi? Può scegliere, ma non desidera. Ugualmente, se lei capita nella stanza di un bambino di oggi, trova una montagna di giocattoli. Il bambino può scegliere con quali di quei giocattoli divertirsi nella prossima mezz’ora, ma non li desidera più. Pensiamo ad un oggetto qualsiasi: un telefonino per esempio. Oggi possiamo scegliere tra un’enorme quantità di offerte,in realtà abbiamo desiderato soltanto il primo telefonino, quando era una cosa totalmente nuova. È l’offerta che disinnesca il desiderio.

 

Massimo Recalcati, dibattendo sui temi del vostro confronto, ha detto che c’è stato un errore nella trasmissione del desiderio da una generazione all’altra. Secondo lei questa trasformazione in negativo del desiderio è anche un problema di educazione?

 

Recalcati conosce senz’altro meglio di me le dinamiche della famiglia e della trasmissione generazionale. A me sembra di poter dire, come ho scritto nel rapporto citando Marcuse, che è il tardo capitalismo a realizzarsi con la moltiplicazione delle offerte. È questa strategia che disinnesca il desiderio, non è tanto un problema interno alla famiglia.

  

Giorgio Vittadini, in un suo recente editoriale su Avvenire, si è rifatto ad un’accezione ontologica di desiderio: la natura di ogni uomo è costituita dal suo desiderio di verità, di giustizia, di bellezza, espressione del nostro rapporto con l’infinito.

 

L’unico desiderio che noi sentiamo come un desiderio, per dir così, appartenente a Dio e a noi, è la giustizia: è l’idea di giustizia quella che “copre” tutti e due i campi. C’è una doppia profondità del desiderio, e dunque anche una sua causa ontologica? Non lo sappiamo. Aveva comunque ragione Leopardi nel dire che il desiderio è in ciascuno di noi, e che essere giovani significa avere il desiderio di desiderare. Io rilevo che questo desiderio non c’è più.

 

Lei nel Rapporto ha stretto un nesso molto forte tra legge e desiderio. Perché?

 

L’inconscio di ciascuno di noi, che io ho voluto trasporre nella sfera collettiva e sociale, è fatto da un’“alchimia” costante, quotidiana, tra desiderio e legge. Il meccanismo vede sempre un desiderio emergente e una legge - divina, dello Stato, della comunità, del padre - in qualche modo costrittiva. Ma se la legge evapora, il desiderio non si forma. È questo il meccanismo che non funziona più nella società italiana e destabilizza completamente la nostra personalità. Da cui questo senso di vuoto, di fragilità, di “rinserramento” in un sé stesso che non c’è.

 

Cl, nel suo volantino, dice che il vero problema del nostro tempo è chi può ridestare il desiderio, e si suggerisce che la strada non sia più quella dell’ideologia ma dell’esperienza: casi virtuosi di persone che «desiderano» e costruiscono. Che ne pensa?

 

Come tesi di fondo sono convinto che sia così, perché l’ideologia non conduce più a niente. I desideri, così come la vita, si formano nel cammino, quindi forse - forse - hanno ragione coloro che dicono che bisogna raccontare il cammino, se vogliamo far nascere altri desideri. Questo spiega Cl al pari di Nichi Vendola: entrambi raccontano e partono dall’esperienza.

 

Nel volantino si dice che l’alternativa radicale tra ideologia ed esperienza si pone anche per la Chiesa.

 

In questo è vero. La Chiesa oggi sta dibattendo se appoggiare Fini o Casini, come farebbe una centrale di politica ecclesiastica, si sarebbe detto una volta. La dimensione ecclesiale non c’è più, resta il fenomeno gerarchico: tre o quattro parlano per tutti. Allora la sfida del desiderio rivolta alla Chiesa è quella di indurre a camminare.

 

Scorrendo i dati che emergono dal rapporto Censis si può vedere che non sono poi tutti così negativi. Merito della nostra capacità di galleggiare, ammesso che sia una virtù e non un vizio?

 

 

 

La nostra capacità di galleggiare c’è e resiste bene. Sono anni ormai che galleggiamo, dalla prima vera crisi radicale del secolo, quella dell’11 settembre, e ci siamo nel mezzo ancora oggi. In dieci anni siamo diventati artisti del galleggiamento: nella famiglia, nelle piccole imprese, nelle realtà locali. Funziona ancora, ma stanca. Replicare stanca.

 

Ci sono quei 2milioni e 200mila giovani tra i 15 e i 34 anni che non studiano e non lavorano, dice il Rapporto, però c’è un 26 per cento di italiani che fanno volontariato. Come valuta questi aspetti contrastanti?

 

Come un cammino complicato. Il cammino storico di una nazione o di una società è dato da tanti processi, e il popolo che cammina è quello in cui ci sono tante realtà non profit e quello in cui i giovani stanno ad aspettare. C’è un insieme di atteggiamenti nel corpo sociale che non possono esser messi in colonna, in fila. È una molteplicità da decifrare. Io tento di interpretarla.

 

Esiste secondo lei il rischio che la persona, in assenza di desiderio, cioè di un io che riconosce altro al di là di sé, affidi la consistenza ultima dell’agire sociale allo Stato e alla sua capacità di produrlo?

 

No, perché la società può non desiderare, ma in ormai settant’anni di democrazia italiana non ha mai creato distorsioni che hanno richiesto l’intervento dello Stato. Nemmeno il ’68 è stato un’effettiva tensione sociale: era una tensione politica camuffata da tensione sociale. Ecco perché lo stato non ha avuto problemi nel gestirla.

 

Un'ultima domanda: lei, De Rita, è ottimista o pessimista?

 

Ho combattuto tutta la mia vita a dire che non ero un ottimista, mentre tutti mi dicevano che ero un ottimista beota. Quest’anno, visto che non sono stato un ottimista beota, tutti dicono che De Rita è diventato pessimista. E Mario Pirani ha detto: finalmente, aspettavamo che De Rita si convertisse.

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26 novembre 2010 5 26 /11 /novembre /2010 23:08
 

Accanto alla operosa attività quotidiana di recupero di eccedenze alimentari da destinare ai pià poveri del nostro paese, il Banco Alimentare organizza ogni anno, l´ultimo sabato di novembre, la Giornata Nazionale della Colletta Alimentare.

Un appuntamento che dal 1997 è diventato un importante momento che coinvolge e sensibilizza la società civile al problema della povertà attraverso l´invito a un gesto concreto di gratuità e di condivisione: fare la spesa per chi ha bisogno. Durante questa giornata, presso una fi ttissima rete di supermercati coinvolti su tutto il territorio nazionale, ciascuno può donare parte della propria spesa per rispondere al bisogno di quanti vivono nella povertà.

100.000 volontari che donano parte del loro tempo, permettono la realizzazione di questa giornata.
5.000.000 gli italiani che acquistano cibo per chi non può farlo.

E´ un grande spettacolo di carità : l´esperienza del dono eccede ogni aspettativa generando una sovrabbondante solidarietà umana.

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26 novembre 2010 5 26 /11 /novembre /2010 22:48

 Cari amici , vi scrivo  per invitarvi a firmare la petizione "Ripristina subito il 5 per mille " .

Di cosa si tratta ?

In poche parole , il governo  ha tagliato 300 milioni dei 400 attesi del 5 per mille che ogni cittadino devolve nella denuncia dei redditi a favore di associazioni non profit .

Per me è un fatto inaudito .

Il testo della petizione , che riporto qui sotto , spiega meglio di me di cosa si tratta , e visto che è una petizione online , bisogna andare sul sito VITA.it.

ciao Artemio

59   

Ripristinate subito il 5 per mille!

Firma la petizione online di Vita e Forum Terzo Settore! Fai sentire la tua voce: siamo già 15mila!  SU  Vita.it
Il 5 per mille è ridotto in briciole. E le attività di milioni di volontari e migliaia di associazioni sono a rischio. Così come la libertà di scelta di milioni di contribuenti. Per la prossima edizione del 5 per mille il governo ha infatti predisposto una copertura finanziaria di soli 100 milioni di euro rispetto ai 400  milioni attesi. Fai sentire le tua voce. Firma la petizione e lascia un tuo commento!
Ad oltre 5 anni, infatti, il 5 per mille non solo non è diventato una legge fiscale dello Stato italiano (a differenza di quanto è successo in altri 12 Paesi europei), ma nella Legge di Stabilità ora all’esame del Senato, la copertura per la misura sperimentale (da 5 anni!) è stata drasticamente decurtata da 400 milioni a 100. Ovvero, il 5 per mille dalla sera alla mattina si trasforma così nell’1,25 per mille, forse. Alla faccia degli impegni presi con la platea dei contribuenti (oltre 15 milioni di cittadini hanno usufruito ogni anno dell’opportunità)  e con quella organizzazioni del non profit impegnate nell’assistenza, nella promozione culturale, nella ricerca scientifica (circa 30mila).
Il 5 per mille che, davvero, poteva e doveva essere il caposaldo sussidiario della più volte invocata riforma fiscale, si spegne quindi nelle spire della disponibilità di bilancio. Come sono lontani i tempi in cui Tremonti parlava della restituzione di valore e di risorse al Terzo settore come forma d’investimento per lo Stato e non come voce di costo!
C’è una sola possibilità per questo Governo di dimostrare di non aver parlato a vanvera nel corso di questa legislatura: che presenti subito un emendamento per reintegrare la copertura di almeno 400 milioni per il 5 per mille 2011. Fai sentire la tua voce, firma la petizione
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21 novembre 2010 7 21 /11 /novembre /2010 22:52

 

 

Non date al peccato l’ultima parola

 

 

 

 

L’ uomo oggi – intendo l’uo­mo occidentale – sta male, anche se cerca di vivere gaiamente il suo malessere, perché si è interdetto l’esperienza del per­dono da parte di Dio, e quindi l’e­sperienza della sua misericordia.

 

L’uomo non può vivere una buona vita senza questa esperienza. Egli è capace di agire male, ma è incapace di liberarsi dal male compiuto. Non dico di porre rimedio alle conse­guenze che la sua azione ha causato in sé e su gli altri. C’è un testo man­zoniano che ci aiuta a capire questo paradosso dell’uomo che può agire male e non può liberarsi dal male compiuto.

 

È la famosa notte dell’Innominato, nel momento in cui egli passa in rassegna tutte le sue scelleratezze. «Erano tutte sue; erano lui: l’orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quelle immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione» [ Promessi Sposi, cap. XXI]. Ed anche nelle Osservazioni sulla morale cattolica: «Il reo sente nella sua coscienza quella voce terribile: non sei più innocente; e quell’altra più terribile ancora, non potrai esserlo più» [ VIII, 3]. Con le proprie scelte ciascuno di noi genera se stesso, e diventa genitore di se stesso: sei quello che decidi di essere. Gli atti di ingiustizia non erano solo atti di cui l’Innominato era responsabile: «erano lui».

 

Esiste una misteriosa ma reale progressiva identificazione del nostro io con le scelte della nostra libertà. Se penso a un triangolo, non divento un triangolo. Se compio un furto, divento un ladro. Posso certo e devo restituire ciò di cui mi sono indebitamente impossessato, ma ciò non toglie il mio essere stato ciò che sono stato. Esiste come un’identificazione della persona coi suoi atti: «attaccata a tutti», come dice Manzoni.

 

La soluzione, la via di uscita sa­rebbe quella di un «ricomin­ciare da capo», come una sorta di rinascita e di rigenerazione. Ma «come può un uomo nascere quan­do è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» [Gv 3, 4]. Ma poiché l’uomo non può compiere questo miracolo, ha elaborato e in­ventato altre vie palliative di libera­zione dal male. Sono stati inventati vari surrogati dell’unico atto che potrebbe rigenerare l’uomo: il per­dono di Dio. Non li enumero tutti.

 

Mi limito a qualche riflessione sul tentativo più tragico, più disperato che l’uomo abbia mai compiuto di vivere senza il perdono di Dio: la ne­gazione del male morale. È un ten­tativo che è andato di pari passo con la negazione [dell’esistenza] di Dio. Intendo dire di un Dio coinvol­to nel destino della persona umana.

Ciò non è avvenuto per caso. La ne­gazione di Dio non ha coinciso ca­sualmente con la negazione del ma­le morale. I due, esistenza del male morale nell’uomo ed esistenza di Dio, stanno o cadono insieme. Nes­suno come Dostoevskij ci ha fatto riflettere su questo, soprattutto in due grandiosi romanzi, Delitto e ca­stigo e I fratelli Karamazov. «Se Dio non esiste tutto è permesso»: il frut­to della negazione di Dio per il vero ateo è la liberazione da ogni legge morale. Ma cosa accade in uomini come Raskolnikov o come Ivan Ka­ramazov? Vengono distrutti, alla fi­ne, dal delitto che hanno compiuto.

Elimina Dio dalla vita e la voce della coscienza si farà sempre meno im­periosa. Non sono certo la società e lo Stato ad impegnare la coscienza dell’uomo, a «legare» la sua libertà.

 

È il cuore del dramma dell’uomo di oggi. Ma c’è qualcosa nell’uomo che ha peccato che gli impedisce alla fi­ne di accontentarsi dei vari surroga­ti al perdono di Dio. È il trovarsi con se stesso, con un se stesso divorato dalla potenza distruttiva del rimor­so. Il castigo che segue al peccato – come hanno ben visto Manzoni e Dostoevskij – «precede la condanna di ogni tribunale ed è più terribile di ogni condanna. È questo 'castigo' la prova di Dio. Il peccatore può non riconoscere Dio nel suo castigo, ma se l’uomo non può impunemente offendere la legge, senza che il delit­to ricada su di lui, la distruzione psi­cologica che segue al delitto afferma ugualmente la 'divinità della leg­ge'» (Divo Barsotti, Dostoevskij. La passione per Cristo, ed. Messaggero di Padova).

 

Ma forse oggi si è già im­boccata un’altra strada. Si cerca di spiegare l’emergere del nostro esse­re coscienti di noi stessi, in prima persona, e quindi l’emergere della nostra libertà da una realtà di tipo neurobiologico, come si spiega un effetto con la sua causa. «Il mistero della coscienza verrà progressiva­mente rimosso quando risolveremo il problema biologico della coscien­za» (John Searle, Il mistero della co­scienza, Cortina). L’evento cristiano è la possibilità of­ferta all’uomo di essere rigenerato mediante il perdono di Dio: di na­scere di nuovo e di cominciare di nuovo. Il cristianesimo è la possibi­lità di dire in qualunque circostan­za: «ora ricomincio da capo», per­ché è il perdono di Dio sempre of­ferto all’uomo, ad ogni uomo. Dire 'Dio perdona' non significa: Dio decide di non tenere in conto le scelte della tua libertà, con una sor­ta di dissimulazione. Egli prende tremendamente sul serio le nostre scelte sbagliate, e ne assume il peso fino in fondo. L’assunzione di tutte le scelte sbagliate di ogni uomo è la Croce di Cristo.

 

 Ma nello stesso tempo il perdono di Dio consiste A nell’azione di Dio che trasforma la nostra libertà e rinnova alla radice il nostro io. Questo atto è più divino, è più grande dello stesso atto della creazione. All’accusa degli uomini, al loro peccato, Dio risponde col suo perdono. Esiste un limite contro il quale si infrange la potenza del male: il perdono e la misericordia di Dio.

 

Ancora Dostoevskij ha e­spresso mirabilmente la for­za rigeneratrice del perdono di Dio, nel discorso di un ubriaco, incapace di liberarsi dal vizio del bere che ha portato la sua famiglia nella miseria più nera, nel discorso di Marmeladov, il padre di Sonia, in Delitto e castigo. Marmeladov chie­de pietà. «Colui che ebbe pietà di tutti gli uomini, colui che tutto e tutti comprese avrà pietà di noi, egli è il solo giudice, egli verrà nell’ulti­mo giorno … Tutti saranno giudicati da lui ed egli perdonerà a tutti: ai buoni e ai tristi, ai santi e ai man­sueti … E quando avrà pensato agli altri, allora verrà il nostro turno: 'Avvicinatevi anche voi', ci dirà, 'avvicinateci, voi beoni, avvicinate­vi, voi disperati'. E ci avvicineremo tutti senza timore… E i saggi e i benpensanti diranno: 'Signore, per­ché accogli costoro?'. 'Io li accol­go… Perché nessuno di loro si è cre­duto degno di questo favore'. E ci tenderà le braccia e noi ci precipite­remo e scoppieremo in singhiozzi e comprenderemo tutto… E capire­mo tutto… Signore venga il tuo Re­gno».

 

 La pagina, a mio giudizio fra le più alte della letteratura cristiana di ogni tempo, sembra la filigrana della pagina evangelica che narra il pianto della prostituta perdonata e che ha solo il coraggio di baciare i piedi del Signore. E chi vide quel­l’incontro non poté non accusare Cristo di comportarsi come fosse Dio. È nella sua misericordia che E­gli rivela la sua divinità.

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2 novembre 2010 2 02 /11 /novembre /2010 00:16
IL CASO/ La Piazza dove scuola e lavoro insegnano un percorso

lunedì 1 novembre 2010

 

L’utilità di questa esperienza è sintetizzabile in una poesia scritta da una delle nostre ragazze con cui desidero chiudere questo articolo.

 

Solitudine

Solitudine compagna lieve

Di tutta la gente

Che affolla la mente

Ma svuota l’anima.

Non sei la vincitrice tu

Non sei più la regina:

Qualcuno può sconfiggerti

Con l’abbraccio del bene

Può trafiggerti.

Non è più male la mia vita

Non è più tristezza il mio futuro!

Solo il sapore del ricordo

Mi resta ancora amaro

Ma è già un passato dimenticato

Un tempo rinnovato

 

 

 

Mettere le mani in pasta 

 



 

La Piazza dei Mestieri nasce a Torino nel 2004 ristrutturando una vecchia conceria trasformata in un luogo pensato per i giovani adolescenti (14-18 anni), perché possano incontrare dei Maestri che li introducano allo studio, al lavoro, allo sport, all’arte, all’uso del tempo libero.

 

Sono oltre 500 i ragazzi che ogni giorno varcano il grande cancello della Piazza dei Mestieri e che si distribuiscono lungo i 7.000 mq dell’edificio per frequentare i loro percorsi educativi che hanno una durata biennale o triennale e che li porteranno a diventare cuochi, barman, maitre, grafici, cioccolatieri, acconciatori, panettieri.

 

Spesso si tratta di ragazzi che hanno situazioni difficili alle spalle, dagli insuccessi scolastici ai problemi familiari. Oltre il 50% delle famiglie (ma molte altre si vergognano di dircelo) dei nostri studenti dichiara un reddito familiare che non supera gli 11.000 euro annui (sotto il livello di povertà). E non è solo una povertà economica. Tanti non conoscono la loro stessa città; quasi tutti hanno perso la speranza che la scuola sia un percorso possibile e adatto per loro.

 

È un fenomeno noto che emerge ormai da gran parte dei dati statistici e dalle analisi nazionali e internazionali sul nostro sistema educativo; i giovani tra 18 e 24 anni in possesso della sola licenza media inferiore e non iscritti ad alcun percorso educativo o formativo sono in Italia oltre 1.000.000, ma anche tra coloro che permangono nel sistema di istruzione le difficoltà non mancano: i tassi di assenza scolastica sono in crescita costante; resta elevato il gap, nei confronti degli altri Paesi industrializzati, in termini di competenze chiave; sono sempre più numerosi i quindicenni che dichiarano di non vedere alcuna utilità nel frequentare la scuola; tra coloro che si diplomano, il 30% lo fa con uno o più anni di ritardo; il primo inserimento lavorativo è situato in media al venticinquesimo anno di età e per oltre il 45% delle persone sino a 35 anni esso non ha alcuna attinenza col percorso scolastico svolto in precedenza.

 

Davanti a questa emergenza educativa, non abbiamo voluto limitarci ad aggiungere dati alle analisi, ma abbiamo deciso di mettere le mani in pasta. Dopo sei anni la nostra esperienza ci fa vedere che davanti a una proposta educativa i giovani si riaprono alla speranza, ricominciano a credere a loro stessi, al fatto che hanno un valore, e cosi in questi primi anni degli oltre 1.400 giovani che sono passati in Piazza il 95% ha finito il suo percorso formativo e quasi tutti (il 97% del settore acconciature, l’85% di quello gastronomico alberghiero e il 70% di quello grafico) ha trovato lavoro nel settore in cui aveva studiato e sono in crescita anche quelli che passano al quarto anno delle superiori per giungere al diploma.

 

 

La prima dimensione è legata alla bellezza. Noi siamo convinti che per ognuno, ma soprattutto per i giovani, la voglia di fare e di costruire nasce dall’attrattiva che genera su di loro la bellezza; per questo abbiamo cercato di creare un luogo accogliente, bello pieno di colori. Ed è per lo stesso motivo che ai nostri ragazzi proponiamo ogni settimana eventi musicali e teatrali, o li portiamo a vedere cose belle, ma anche che li accompagniamo a vedere la bellezza che nasce dall’opera delle loro mani.

 

Da questa osservazione nasce la seconda dimensione che è legata alla valorizzazione della manualità; i nostri ragazzi sono accompagnati a vedere la realtà trasformarsi sotto i loro occhi, vedere come le loro mani, come quelle dei loro maestri artigiani, diventano intelligenti e generano. Questa dimensione che si è ormai persa nelle nostre scuole tecniche e professionali è uno dei grandi patrimoni della tradizione del nostro paese che dobbiamo recuperare.

 

Una terza dimensione è quella legata al lavoro; per anni si è contrapposta l’educazione (scuola) al lavoro, come se fossero due momenti distinti e successivi; sono stati anni in cui è prevalsa una concezione che demonizzava l’impresa e l’imprenditore, sembrava che la scuola fosse umanizzante e il lavoro mero sfruttamento. Ecco noi vogliamo superare questo dualismo sciocco e ideologico. In Piazza si lavora sul serio, ogni ragazzo può frequentare i laboratori sotto la guida di maestri esperti, ma anche lavorare al ristorante aperto al pubblico, o al pub che serve la birra prodotta da noi. E alcuni prodotti sono venduti sul mercato come la birra e il cioccolato o sono utilizzati dalle aziende per la loro regalistica, cosi come sul mercato sta la nostra tipografia. Questo collegamento con il lavoro è una delle grandi novità del modello della Piazza dei Mestieri.

 

Ma la vera sfida è che il risultato di questo lavoro sia eccellente, che quello che fanno sia sempre più buono, che chi assaggia i loro prodotti provi soddisfazione. Per fare questo abbiamo scelto dei maestri che eccellevano nel loro mestiere e che hanno accettato di correre insieme con noi l’avventura di questa sfida.

 

In questo senso la Piazza, oltre a essere un ambito formativo, è anche un’impresa che si misura con i suoi clienti. Certo è un’impresa sociale che ha caratteristiche particolari, ma ha i problemi della produzione, dei clienti che non pagano, cosi come ha la necessità di remunerare chi lavora attraverso il raggiungimento di risultati positivi. Questa dimensione è preziosa perché ci permette di trasmettere a questi ragazzi l’onore del lavoro e del fare impresa, aprendoli a un compimento personale e a una responsabilità che è anche la grande speranza per affrontare ogni crisi personale, sociale ed economica.

 

Un luogo aperto al mondo

Una delle peculiarità della Piazza è quella di un’apertura al mondo. Non è pensabile costruire dispositivi per l’inclusione sociale realizzando “spazi chiusi”, per loro natura spesso autoreferenziali, un po’ asfittici, in cui i giovani che già vivono situazioni di marginalità vengano confinati nuovamente in contesti posti a lato dello scorrere della “vita normale”. L’apertura verso il mondo, attraverso la partecipazione alla vita della comunità territoriale, rende più semplice apportare correttivi e inventare risposte nuove ai bisogni emergenti.

 

 

Il “fare con”, il farsi compagno di un pezzo di strada, è il metodo che connota tutte le relazioni della Piazza, da quelle del tutor con il ragazzo, a quelle dell’artigiano che si rende disponibile a insegnare un mestiere, al tavolo degli amici della piazza che riunisce ogni mese 35 professionisti e imprenditori che dialogano su come sostenere questa esperienza, fino al rapporto con l’autorità locale, che ha la responsabilità di favorire un reale processo di sussidiarietà, sorreggendo iniziative in grado di fornire risposte concrete a bisogni emergenti.

 

Con la stessa logica, approfondendo i rapporti con le scuole, si sono costruiti percorsi per i docenti, mettendo a disposizione approcci e metodologie testati e consolidati e si sono istituiti percorsi di sostegno allo studio durante i regolari percorsi scolastici per i ragazzi con difficoltà di apprendimento.

 

I rapporti con i servizi sociali, i centri di aggregazione giovanili, le parrocchie, gli enti che per primi percepiscono situazioni di disagio, gli organi di pubblica sicurezza si sono approfonditi nel tempo, fino a creare un vero e proprio salvagente per le situazioni di emergenza e per sviluppare progettualità per supportare situazioni critiche.

 

Nella logica del “fare con” si è inoltre dato molto spazio agli incontri con gli artigiani, le imprese (oltre 700 ormai) e le loro associazioni, per verificare e analizzare le carenze nelle competenze e il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro, per costruire percorsi di apprendimento che rispondano alle esigenze del tessuto imprenditoriale. Percorsi in cui si sono coinvolti gli imprenditori e le diverse professionalità presenti nell’impresa; un coinvolgimento che si estrinseca nella partecipazione diretta alle attività didattiche, come nel costante dialogo sui contenuti dei percorsi educativi, per giungere sino alla collaborazione sulla pluralità delle iniziative in cui si estrinseca la vita stessa della Piazza.

 

Infine decisivo è stato il coinvolgimento degli enti locali e delle fondazioni bancarie. La necessità di tale coinvolgimento non è meramente connessa agli aspetti finanziari (che pur sono rilevanti), ma anche alla condivisione vera e propria dell’idea e della sua capacità di rispondere a un bisogno emergente dei giovani del territorio. Se la mission viene condivisa e assunta come propria, tali soggetti possono aiutare l’azione sui ragazzi favorendo l’apertura a nuove reti di interlocutori la cui azione sia complementare e dunque integrabile a quella della Piazza.

 

L’utilità di questa esperienza è sintetizzabile in una poesia scritta da una delle nostre ragazze con cui desidero chiudere questo articolo.

 

Solitudine

Solitudine compagna lieve

Di tutta la gente

Che affolla la mente

Ma svuota l’anima.

Non sei la vincitrice tu

Non sei più la regina:

Qualcuno può sconfiggerti

Con l’abbraccio del bene

Può trafiggerti.

Non è più male la mia vita

Non è più tristezza il mio futuro!

Solo il sapore del ricordo

Mi resta ancora amaro

Ma è già un passato dimenticato

Un tempo rinnovato



Le dimensioni della proposta

 

 

Tale dialogo, consolidato efficacemente già nella fase progettuale, ha portato durante questi anni alla valorizzazione di rapporti con realtà, persone, istituzioni, aziende con cui si è consolidata un’abitudine al lavoro comune. Si è sviluppata una “rete” di rapporti, di persone, di enti che desiderano mettersi insieme per affermare un metodo di lavoro che potremmo sintetizzare con uno slogan: “fare con”. Un mettersi insieme, senza schemi, per il raggiungimento del bene comune, in questo caso per il bene del singolo ragazzo.

 

 

 

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30 ottobre 2010 6 30 /10 /ottobre /2010 00:25

 

 

Quello che non ci dicono su

 

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di Giuliano Guzzo

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L’affare è colossale - 300 milioni, euro più euro meno – e spazia dal traffico di zucche alla vendita di cappelli da strega, canini vampireschi e mille altre diavolerie.

Ma non è pecuniario, per quanto esorbitante, l’aspetto sul quale dovrebbero riflettere gli 8 milioni di italiani che tra poco festeggeranno Halloween, bensì religioso; anzi, diabolico. A dispetto delle buone intenzioni con le quali asili, scuole e persino parrocchie a breve apriranno le loro porte a quella che ritengono un’innocua carnevalata, l’appuntamento in questione, infatti, oltre ad essere l’inizio del calendario celtico, rappresenta anche la più importante festa delle sette sataniche. Parola di Anton Lavey (1930-1997), fondatore della Chiesa di Satana, il quale ha messo inoltre in chiaro come non ci sia alcuna “differenza fra magia “bianca” e “nera” tranne nella presuntuosa ipocrisia, presunta legittimità e autoinganno del praticante di magia “bianca” (A. Lavey, The Satanic Bible, New York 1969, p. 110).

Il 40% dei giovani che, secondo un’indagine di Telefono Antiplagio, festeggia la notte delle streghe con dichiarate simpatie verso il mondo magico è dunque avvertito: si rischiano brutti incontri. Gli scettici, come al solito, sorrideranno nel leggere queste righe, ma il pericolo è reale: il 16% delle persone avviate all’esoterismo - che poi è l’anticamera del satanismo - ha esordito, a detta del Servizio antisette della Comunità Papa Giovanni XXIII, proprio durante Halloween. Qualcosa vorrà pur dire. Non per nulla Doreen Irvine, prostituta passata per anni al satanismo e convertitasi poi al Cristianesimo, su Halloween è stata piuttosto esplicita: se i padri sapessero il significato di questa festa, ha detto, non la nominerebbero nemmeno davanti ai loro figli.

Non è un mistero, dopotutto, che il 31 ottobre cada uno dei quattro sabba, e non uno qualsiasi bensì il peggiore, quello più inquietante. Infatti, mentre i primi tre segnano i tempi delle stagioni "benefiche” – il risveglio della terra dopo l'inverno, il tempo della semina, il tempo della messe -, il quarto inaugura l’arrivo dell’inverno e, portando freddo, fame e morte, celebra la "sconfitta" del sole. Anche per questo la notte 31 ottobre, già capodanno dei Celti - che erano soliti celebrarla come la notte di Samhaim, alias “il Signore della morte, il Principe delle Tenebre”, convinti dell’apertura delle porte annwn (regno degli spiriti) e sidhe (regno delle fate) - è rimasto come il capodanno degli stregoni; di qui l’attivismo satanico fatto di incursioni nelle chiese, furti di ostie consacrate e roghi di rosari.

Com’è avvenuto un anno fa nella chiesetta di San Lorenzo a Tempio, in Sardegna, dove poco prima dell’alba dell’1 novembre un gruppo satanisti ha pensato bene di bruciare delle immagini sacre, poi rinvenute dai vigili del fuoco e del parroco locale, don Gianni Sini, guarda caso esorcista della diocesi. Nella cosiddetta “notte delle streghe” se la vedono brutta anche i felini, spesso vittime di inquietanti sacrifici: lo scorso autunno scorso, proprio in questi giorni, un esercito di volontari animalisti operativo in Lombardia, Toscana e Umbria ha tratto in salvo 71 gatti neri verosimilmente destinati ai rituali delle messe nere. Appare assai incauto, dunque, insistere con le bonarie minimizzazioni di Halloween, che di fatto con l’”All Hallows’Eve day” – letteralmente la “vigilia d’Ognissanti” – non c’entra nulla. E che, proprio per la sua natura di appuntamento quanto meno equivoco, merita d’essere guardato dai cristiani con particolare attenzione; e tenuta a debita distanza: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro» (Isaia 5, 20).

Tutt’altra cosa, rispetto a quelle sin qui ricordate, è la Festa di Ognissanti. In origine l’idea fu di un monaco sassone, Alcuino di York, che volle cristianizzare all’insegna della santità e della comunione dei santi la già ricordata festa celtica di Samain. Un’intuizione teologica, questa, ripresa poi, su richiesta di Papa Gregorio IV, dall'imperatore Ludovico il Pio. Ma fu soltanto secoli dopo - precisamente nel 1475 – e grazie al pontefice Sisto IV, che la festività di Ognissanti divenne obbligatoria in tutta la Chiesa. E non mancarono, coi secoli, ulteriori metamorfosi, ma ciò che qui è importante ricordare è che quella di Ognissanti è una ricorrenza secolare, teologicamente importante, mentre l’Halloween che conosciamo oggi, oltre – e scusate se è poco - a fare il gioco dei satanisti, si configura come una festa commercializzata e diffusa solo recentemente: perfino le grandi enciclopedie - dall’Enciclopedia cattolica (1948-1954) al Grande Dizionario enciclopedico (1935), dal Grande Dizionario della lingua italiana (1972) alla Grande Enciclopedia universale Atlantica (1982) – fino a ieri la ignoravano. Oggi invece tutti la conoscono ma solo pochi, purtroppo, si rendono conto di che cosa sia veramente. Una ragione in più per aprire gli occhi alla gente, in particolar modo a chi ricopre il delicato compito di educatore e animatore dei più giovani. Che notoriamente sono il bersaglio preferito di chi ha le peggiori intenzioni.

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28 ottobre 2010 4 28 /10 /ottobre /2010 07:21

 

 

"Il caso di Sarah Scazzi ha fatto precipitare al di sotto di ogni livello di decenza la civiltà giuridica del nostro sistema informativo............."

  

  

L'AUDIO DEL MOSTRO E

 

QUELLO DEI POLITICI

 

 

Il rispetto per Sarah e quello per gli indagati

 

 

 

 

Tratto da il Riformista del 25 ottobre 2010

Un salutare moto di indignazione sta percorrendo le coscienze più serie della professione giornalistica dopo la divulgazione dell’audio degli interrogatori dell’imputato di Avetrana, che raccontano - come si suol dire - dalla viva voce dell’assassino gli attimi in cui ha ucciso la povera sventurata che gli era finita tra le mani.

Eppure, anche nelle riflessioni più sincere e appassionate (quella di Mario Calabresi sulla Stampa di ieri, per esempio, lo era) l’indignazione trova la sua origine nella compassione per la vittima, sui cui ultimi momenti sarebbe giusto stendere un velo bianco fatto di rispetto e di silenzio; mentre invece la stessa indignazione dovrebbe trarre origine anche dal rispetto per gli imputati e le loro garanzie, perfino quando confessano.

Non solo le vittime, infatti, ma anche gli imputati meritano rispetto, perché la “verità” che li riguarda sarà comunque definita soltanto nel processo, come prescrive il rito accusatorio, e non si può pre-costruirla davanti al tribunale dell’opinione pubblica, quasi in tempo reale, con i contenuti di interrogatori resi a magistrati. C’è una profonda differenza tra la fase delle indagini e il processo, e se si abbatte il diaframma che li separa si violano a cascata numerosi princìpi essenziali della civiltà giuridica in uno Stato di diritto.

C’è poi, grande come una casa, il problema del che cosa è il giornalismo se si limita a trasmettere il materiale accusatorio fornitogli dagli inquirenti, senza alcuna mediazione, per l’appunto giornalistica: «Credo che esista una sostanziale differenza tra il riportare un fatto, il raccontarlo mettendolo nel suo contesto esatto - scrive Calabresi - o invece gettarlo in faccia a chi ascolta senza alcuna mediazione. È in quella differenza che è nato il giornalismo, che ha trovato un senso e una ragione d’essere».

Parole sante. Ma c’è poi un altro passo da fare, dopo aver riconosciuto questa verità. Ed è che oltre a rispettare la morte di Sarah, e a rispettare anche le verità di mostri e figli di mostri, bisogna imparare a rispettare i diritti degli imputati anche quando sono famosi o potenti, persino se sono avversari politici. Perché la pubblicazione “senza mediazione giornalistica” delle intercettazioni telefoniche, la loro recitazione con voci di attori nelle trasmissioni tv, e i resoconti dettagliati degli interrogatori appena fatti sono uno scandalo anche quando riguardano uomini politici, funzionari pubblici, o veline.

Il caso di Sarah Scazzi ha fatto precipitare al di sotto di ogni livello di decenza la civiltà giuridica del nostro sistema informativo; ma il fenomeno era cominciato prima, per ben altri processi, nei quali né la notorietà degli imputati né il nobile e sbandierato intento politico di dire la verità al popolo giustificavano le gravi violazioni avvenute. A meno di sostenere che gli imputati dei processi “politici” siano di per sé meno meritevoli di garanzie dei “mostri” da cronaca nera.

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27 ottobre 2010 3 27 /10 /ottobre /2010 23:38

  Cuba, un altro chiodo

sulla bara del regime

 

Il premio Sakharov al dissidente Fariñasthumbtruecut1287665231126_475_280.jpg

di Giorgio Ferrari

«Dedico questo riconoscimento a chi si trova dietro le sbarre per il suo impegno a favore della libertà. Ai dissidenti che ogni giorno, con la penna, il pc o le parole sfidano senz’armi la polizia politica».

Il Premio Sakharov, assegnato quest’anno dall’Europarlamento al dissidente cubano Guillermo 'Coco' Fariñas, potrebbe forse essere uno degli ultimi chiodi sulla bara del decrepito regime dell’Avana. Il quarantottenne Fariñas ha digiunato per 135 giorni in segno di protesta nei confronti dei detenuti politici ancora rinchiusi nelle prigioni dei fratelli Castro e minaccia di riprenderlo se non potrà recarsi a Strasburgo. Dopo Oswaldo Payá e le Damas de Blanco (il movimento di opposizione che raduna le mogli e i familiari dei detenuti per reati d’opinione), è la terza volta che Cuba viene marchiata a fuoco dal dito accusatore dell’Europa, che idealmente si aggiunge a quel Premio Nobel per la pace recentemente conferito al dissidente cinese Liu Xiaobo. Un modo forte e inequivocabile per ricordare a quei Paesi che ne fanno strame che la libertà di parola e di pensiero è il primo ingrediente della democrazia. Nel 2006, quando la malattia lo rese a lungo invalido, Fidel Castro cedette il potere al fratello Raul, con ciò lasciando prefigurare l’avvento di una stagione di transizione morbida verso la democrazia. Lo stesso Raul, uomo prudente quanto incolore a petto del leggendario fratello, fece sperare al mondo occidentale in una misurata ma graduale apertura sia nei confronti del libero mercato sia per quanto concerne i diritti umani. Ma le democrazie occidentali, dall’appeasement di Neville Chamberlain a Monaco alla breve illusione coltivata da George W. Bush nei confronti dell’Avana, hanno il vezzo inguaribile di trasformare i propri intimi desideri in convinzioni. La realtà come sempre si rivela assai più brutale: Cuba – al di là di ogni sussulto agiografico sempre caro a quel terzomondismo di marca europea che ebbe grande fortuna per un paio di decenni e alle ricorrenti santificazioni di eroi popolari come Ernesto Che Guevara o degli etnocaudillos come Hugo Chavez o Evo Morales – è e rimane uno Stato totalitario, un recinto di irrealistica ideologia già macinata e ampiamente digerita dalla Storia, dove le libertà individuali sono esigue (da quella d’impresa a quella di parola) e la struttura della società, pur avvalendosi di un lodevole sistema sanitario, non è dissimile da quella che si incrocia nelle meste contrade del Terzo Mondo. Da questo pantano di disservizi, povertà, corruzione, borsa nera e prostituzione tenuto in piedi a forza di slogan anticapitalisti (il più prezioso alleato di Castro è sempre stato in realtà il bloqueo, l’embargo decretato dagli Usa nei confronti dell’isola, che ha alimentato negli anni l’orgoglio nazionale) non si riesce a uscire. O per lo meno non fino a quando Fidel Castro sarà ancora in qualche modo al potere. È vero peraltro che recentemente egli stesso ha criticato il modello economico cubano, ritenendolo non più all’altezza dei tempi. Ma questo tardivo autodafé è ben poca cosa di fronte al disastro sociale e morale di una nazione bellissima e fiera, da cui nelle mattine di brezza si riesce a scorgere dal Malecón – il lungomare dell’Avana – il profilo della Florida, il sogno proibito di migliaia e migliaia di profughi e di espatriati: perfino una figlia di Fidel vive laggiù, a Miami, a 60 miglia dalle coste cubane.

Nonostante con calcolata scaltrezza Raul Castro periodicamente ne lasci libero qualcuno, vi sono ancora molti cubani dietro le sbarre. Il loro reato è sempre il medesimo: il dissenso nei confronti del partito, del governo, dei principi rivoluzionari. Per questo, per un pensiero non conforme, stanno pagando di persona. E questo è lo scandalo più grande. Mai come ora ci viene in mente una frase, scritta agli amici nel 1990 da Reinaldo Arenas, poeta cubano morto suicida dopo una lunga prigionia nelle carceri di Fidel: «Vi lascio in eredità tutte le mie paure, ma anche la speranza che Cuba sia libera». Una speranza che nonostante

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Presentazione

  • : IL PUNZECCHIATORE
  • : ....oggi come oggi si tende a non esprimere pubblicamente le proprie idee per non urtare la sensibilità dell'altro,questo alla lunga può far perdere la propria identità ad un intera generazione. A.O
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